Il mare e il viaggio tra la vita e la morte

Sinonimo di divertimento e relax, il mare diventa per molti una tomba. Riusciremo a farne uno spazio di incontro piuttosto che uno sbarramento?

«Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto… la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio» (Gn 2,6.7).

 Il topos letterario del mare

Con il sopraggiungere dell’estate si registra il ripopolamento delle spiagge e l’inizio della stagione balneare. Per l’uomo occidentale, infatti, il mare significa divertimento, incontri, relax, in una parola, vacanze. Non così per l’uomo biblico. Il mare per il Vicino Oriente Antico è un simbolo negativo, espresso con un vocabolo che a Ugarit, città cananea della Siria, era il nome di Jam, una divinità sempre in lotta con Baal, il dio della creazione, con l’intento di sfigurare la bellezza del cosmo. La Genesi racconta, infatti, che uno degli atti fondamentali della creazione è il dominio di Dio sulle acque caotiche primitive (cf. Gen 1,9-10). La bellezza del creato sta nell’equilibrio tra la terraferma e il mare che, nella cosmologia biblica, è inteso come la manifestazione in superficie del sottofondo infernale, il tehom (da Tiamat, divinità negativa mesopotamica che rappresentava le potenze distruttrici contro cui lottava Marduk, il dio dell’ordine).
Il mare è uno dei topoi più utilizzati in letteratura. Esso porta con sé l’idea della sorpresa, dell’imprevisto, dell’insidia e della possibilità di conoscenza. Il mare è un’inesauribile fonte di ispirazione per la cultura, dai romanzi al cinema. Un esempio tra tanti è il celebre Moby Dick di H. Melville. La Scrittura, invece, conta poche pagine marittime, tra le quali si ricordano quelle dell’uscita di Israele dall’Egitto, quelle relative a un profeta ribelle, Giona, che si arrischia in mare per fuggire lontano dal volto di Dio ed evitare di mettere piede nel territorio dei suoi acerrimi nemici, e quelle di un giudeo afferrato da Cristo, Paolo, che si avventura nelle acque del Mediterraneo per irradiare con forza il Vangelo della salvezza. I primi quattro discepoli sono pescatori (Andrea e suo fratello Simon Pietro e i figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni), ma navigano in acque più tranquille e circoscritte, quelle di un lago d’acqua dolce, il lago di Tiberiade o di Genesaret.

Il mare e i suoi molti volti

Il mare ha molti volti. Il suo volto dipende dal tipo di relazione che l’essere umano ha con esso. La prospettiva è diversa se si è distesi su una sdraio in crociera oppure se si è stipati su un barcone della disperazione in fuga da persecuzioni, fame, guerre, nel tentativo di approdare su una costa dove trovare sollievo e accoglienza o almeno un po’ di tregua dal terrore. Mari segnati da questi attraversamenti diventano spesso cimiteri o campi di battaglia tra forze antagoniste. Pagine attuali della nostra storia, lette troppo frettolosamente e spesso con lenti deformate…
Anche la Bibbia registra testimonianze variegate sul mare. Custodisce alcune pagine ireniche dove il mare è invitato ad unirsi alla lode cosmica intonando il suo «alleluia» a Dio tra le 22 creature (tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico) del Salmo 148. Nello splendido “cantico delle creature” che è il Salmo 104, dove si celebra la signoria divina sul cosmo, è racchiusa una felice descrizione di un mare che acquista un volto amico: «Ecco il mare spazioso e vasto: là rettili e pesci senza numero, animali piccoli e grandi; lo solcano le navi e il Leviatan che tu hai plasmato per giocare con lui» (vv. 25-26). Appaiono però anche pagine drammatiche dove il mare acquista i tratti di una realtà da controllare, dominare, imbrigliare, come nel libro di Giobbe: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,8-11). Dio, che ha imposto un limite al mare per contenere «l’orgoglio delle sue onde», ha anche il potere di calmarlo, come appare in Isaia, dove il mare è assimilato alle nazioni pagane in rivolta contro Dio: «Ah, il tumulto di popoli immensi, tumultuanti come il tumulto dei mari… Le nazioni fanno fragore come il fragore di molte acque, ma egli le minaccia, esse fuggono lontano; come pula sono disperse sui monti dal vento e come vortice di polvere dinanzi al turbine» (Is 17,12.13).

Il salvataggio dalle acque della morte

Nel Libro dell’Esodo il mare mostra tutta la sua natura ambivalente di luogo che rappresenta la possibilità certa della morte, ma anche la sola via di fuga per ottenere salvezza e liberazione dalla schiavitù. In effetti, entrambe le possibilità si attuano nella vicenda narrata: una per gli oppressori e l’altra per gli oppressi. Nell’esodo d’Israele dall’Egitto accade un fatto inedito: Dio chiede a Mosè di dividere le acque, opera che compete a lui soltanto. Chiedendo a Mosè di dividere le acque, Dio mostra che il suo inviato partecipa del suo stesso potere (cf. Es 14,16). Quindi l’uscita attraverso il Mar Rosso (o Mar dei Giunchi) non si presenta come una vittoria d’Israele ottenuta grazie all’aiuto di Dio, ma come un’azione di Dio che dà ordini alle forze dell’universo attraverso la mediazione umana. Dio, infatti, agisce in due tempi. Dapprima ordina al mare di bloccarsi come una sorta di muraglia obbedendo così al suo potente imperativo: «Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra» (Es 14,21-22). In seconda battuta, dopo averne controllato la forza, Dio scatena il mare come fosse l’arma del suo giudizio sugli oppressori del suo popolo: «Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri”. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno» (Es 14,26-28).
Il mare diventa così un grembo di rinascita per Israele, che ha attraversato le acque caotiche che Dio aveva mutato in terraferma, e un cimitero per l’esercito degli egiziani che si sono trovati a soccombere dinanzi allo scatenarsi violento di acque travolgenti, annegando «come piombo in acque profonde» (Es 15,10).

Giona e il mare dell’incontro con Dio

Questa natura ambivalente del mare appare anche nella vicenda squisitamente didattica del profeta Giona dove, nei capitoli 1 e 2, sono proprio le sue acque lo strumento pedagogico di Dio per aiutare il profeta a riallacciare un dialogo con lui. La fuga del profeta lontano da Dio e la mancata partenza per la sua terra di missione (Ninive) scatena una tempesta che rende il mare furioso e implacabile. Il mare agitato è segno del caos cosmico che riflette il disordine insorto nella relazione tra l’uomo e Dio. Niente riesce a placare le acque tempestose se non il corpo del profeta che l’equipaggio, dopo aver dispiegato tutti gli stratagemmi possibili, si trova costretto a gettare in mare.
Questo annegamento del profeta, il cui corpo i marinai non gettano in mare con disprezzo ma innalzano con grande devozione quasi fosse un’offerta gradita a Dio, concede riposo al mare che, una volta placatosi, da luogo di morte si muta in occasione di incontro. Inghiottito da un grosso cetaceo, Giona riscopre il dono della preghiera salmica. Ad essa si aggrappa con tutte le sue forze e, dopo un tempo di mutismo e di estraneità da Dio, torna a rivolgersi a lui come al suo interlocutore privilegiato e intimo, come la fonte della sua salvezza (Gn 2,10): dall’essere gettato nell’abisso, «nel cuore del mare», sperimentando la morte, egli sperimenta la risalita dalla fossa. Nelle acque del mare ha vissuto la morte, nelle stesse acque fa esperienza della vita. Colui al quale ha gridato ha risposto e la storia del profeta ribelle, ma tanto amato, può continuare.

Un mare che si placa e che scompare

Anche se nei Vangeli non appare il mare ma le acque del lago di Tiberiade, il suo simbolismo è tuttavia presente. Il mare è il luogo dove va a precipitarsi la mandria dei porci indemoniati (cf. Mc 5,23) ed è il luogo dove Gesù manifesta la sua signoria sulle forze caotiche del cosmo, camminando verso i suoi sulle acque (cf. Mc 6,49; Gv 6,19), placando la tempesta con la sola forza della sua parola, attaccando il mare come se fosse un essere diabolico e sottoponendolo a un esorcismo: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia» (Mc 4,39).
Per l’apostolo Paolo l’esperienza dell’attraversamento del mare durante i suoi viaggi missionari diviene prova del suo grande amore per il Vangelo: i viaggi in mare attestano una passione che lo porta oltre i confini della sua appartenenza etnica e geografica e oltre ogni prudenza per manifestare una dedizione a Cristo, alla sua parola e ai credenti delle prime comunità cristiane che comporta il coinvolgimento totale della sua esistenza, oltre ogni pericolo. In 2Cor 11,24-32 il grande evangelizzatore ricorda tra le prove innumerevoli legate alla sua missione ben tre naufragi in mare e ricorda di aver trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde.
L’Apocalisse, infine, mette in stretto rapporto con il mare le forze del male che Cristo Signore deve fronteggiare nel corso della storia (cf. Ap 13,1; 17,1). Descrivendo l’avvento della nuova Gerusalemme, in cui la signoria di Dio si eserciterà in pienezza, Giovanni ci fa pregustare il giorno in cui il mare, in quanto abisso satanico e forza del disordine, scomparirà lasciando il posto ai cieli nuovi e alla terra nuova (cf. Ap 21,1) perché tutto ciò che richiama l’idea del disordine e della disarmonia cede il posto a ciò che invece esprime bellezza e pace.

Spazio di fratellanza o sbarramento?

Il mare è un luogo ambivalente anche per noi che lo amiamo come spazio di ricreazione e lo temiamo come via di invasione. Mentre noi godiamo del privilegio di scegliere la spiaggia dove rilassarci, tante stragi si consumano nei nostri mari e le acque si tingono di sangue… La vita di tanti fratelli e sorelle, bambini e adulti, si spegne ogni giorno in mare, mentre noi chiudiamo gli occhi, serrati nell’individualismo che prosciuga il cuore e rende i nostri volti più minacciosi del mare in tempesta. Impareremo prima o poi a placare «il fragore dei flutti» di paure e indurimenti per ingegnarci a fare del mare uno spazio di fratellanza e d’incontro piuttosto che uno sbarramento o persino la tomba di molti? Riusciremo a renderci alleati del Dio della vita per far risalire dalla fossa la vita di chi grida alle nostre coscienze assopite?