La via della condivisione
La povertà degli italiani non si combatte chiudendo le frontiere o il cuore nei confronti dei migranti o di chi “’non è dei nostri’”. Intervista a don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio per gli interventi caritativi a favore del Terzo mondo.
“È un errore pensare di combattere la povertà delle famiglie italiane chiudendo le frontiere o il cuore nei confronti dei migranti o di chi ‘non è dei nostri’”. Ne è convinto don Leonardo Di Mauro, responsabile del Servizio per gli interventi caritativi a favore del Terzo mondo, per il quale occorre invece invertire la marcia riguardo agli stili di vita. “La strategia – spiega – è quella della condivisione, dell’imparare a distribuire ciò che si ha a chi non ha e ciò che si è, investendo tempo e denaro”.
Nel Messaggio per la Giornata per la Giornata Mondiale dei Poveri, papa Francesco afferma che “si è talmente intrappolati in una cultura che obbliga a guardarsi allo specchio e ad accudire oltremisura sé stessi, da ritenere che un gesto di altruismo possa bastare a rendere soddisfatti, senza lasciarsi compromettere direttamente”. Quindi, non basta fare l’elemosina?
Direi prima di tutto, come spesso ricorda il Papa, che non basta non fare il male, occorre fare il bene. Ed il bene non può essere solo l’elemosina, che può anche risolvere un bisogno immediato, lasciando però i due soggetti su piani diversi e distanti, senza coinvolgersi né coinvolgere. L’altro rimane distante e prende solo un attimo di quel tempo mai bastante per la cura di sé e delle proprie cose. Altro è lasciarsi compromettere direttamente, condividendo non solo le proprie risorse economiche ma anche il proprio tempo, interessandosi ai poveri, (I care, diceva don Milani), ognuno come può nel volontariato, nelle attività sociali, e nell’impegno politico vissuto come la forma più alta della carità (San Paolo VI).
Sempre nel Messaggio, il Papa denuncia il diffondersi di una sorta di “fobia per i poveri”, considerati spesso come “gente portatrice di insicurezza, instabilità, disorientamento dalle abitudini quotidiane e, pertanto, da respingere e tenere lontani”. Quale è il contributo che la Chiesa può dare per aiutare a dissipare questa paura, che ha poco a che fare con la visione evangelica?
Credo che le nostre comunità debbano favorire sempre più esperienze di prossimità e di scambio. Non possiamo dimenticare che noi siamo i testimoni di un Dio che si è fatto tanto prossimo a noi da assumere in pieno la nostra umanità, siamo chiamati quindi a fare altrettanto, soprattutto nei confronti di quella umanità piagata e scartata. Percorrere questa strada può far paura, richiede cambiamenti di abitudini, di priorità, ci mette in discussione… ma non dimentichiamo che solo quando i discepoli hanno vinto le loro paure, grazie all’azione dello Spirito, quelle “cose nuove fatte da Dio” hanno potuto cominciare ad abitare il nostro mondo.
Guardando alla mia esperienza precedente di parroco, 15 anni nella mia diocesi e 10 come fidei donum in Africa, posso dire che sono proprio queste esperienze che hanno permesso a tanti di crescere e di superare la paura dell’altro a vantaggio di un arricchimento a tutti i livelli. Come pure l’atteggiamento di giudizio ed un ragionare sulla base di luoghi comuni, a favore della capacità di mettersi nei panni del povero e di una prospettiva rovesciata che guardando dalle periferie verso il centro fa avvicinare il tuo sguardo un po’ di più a quello di Dio che “ascolta il grido del povero” e permette loro di cogliere nella vicinanza del fratello l’intervento liberante del Signore.
Qualche giorno fa, su Avvenire, l’economista Luigino Bruni definiva la povertà “carestia di libertà effettiva”. Cosa occorre fare dunque per contrastare la povertà?
Papa Francesco in questo Messaggio ci invita innanzitutto ad ascoltare il grido del povero. È necessario che questo grido che arriva all’orecchio di Dio arrivi anche al nostro orecchio per scuoterci dall’indifferenza e dall’impassibilità. Siamo davvero ancora capaci di ascoltare?
Ci invita poi a rispondere. La risposta di Dio è una partecipazione piena d’amore alla condizione del povero, dice il Papa. Chiunque crede in Lui è chiamato a fare altrettanto nei limiti dell’umano, non limitandosi all’assistenza ma spingendosi fino a quell’attenzione di amore coinvolgente.
Infine, ci invita a liberare il povero per restituirgli dignità e renderlo soggetto attivo nella società affinché possa effettivamente esercitare le libertà fondamentali di ogni persona.
Secondo i dati Caritas, in Italia aumentano le famiglie in difficoltà. Quali politiche e quali strategie bisogna mettere in atto per evitare che questo si trasformi in un alibi per giustificare atteggiamenti di chiusura nei confronti dei migranti e degli stranieri?
Considero un errore pensare di poter risolvere il grosso problema dell’innalzamento della soglia di povertà delle famiglie italiane chiudendo le frontiere o il cuore nei confronti dei migranti o di chi “non è dei nostri”: non sono gli immigrati o gli “stranieri” che impoveriscono le nostre famiglie o gli italiani in generale, anzi una giusta integrazione può portare scambio di ricchezza e di valori. Al contrario l’egoismo, la superbia, l’avidità e l’ingiustizia accrescono le povertà in tutti i sensi.
Una possibile strategia per evitare il progressivo impoverimento delle famiglie italiane, parte dal basso, dalle famiglie stesse cioè, riflettendo e facendo riflettere su ciò che ha prodotto tale stato di cose e invertendo la marcia da uno stile di vita consumistica ad uno di consumo critico e sobrio; dalla cultura dell’usa e getta” a quella del riciclo e del riutilizzo delle cose; da una politica che favorisce la continua crescita di società finanziare che propongono facili finanziamenti, anche molto diluiti nel tempo, che a lungo andare, con l’evanescenza del lavoro esistente, potrebbero diventare grossi pesi per tante famiglie, ad una politica del risparmio investendo in piccoli istituti di micro credito o di finanza etica.
Che dire poi delle martellanti e devastanti pubblicità di giochi, lotterie, scommesse?… così facendo si diseduca al lavoro e alla responsabilità. Una strategia che come cristiani siamo chiamati ad adottare è quella della condivisione, dell’imparare a distribuire ciò che si ha a chi non ha e ciò che si è, investendo tempo e denaro per un mondo rinnovato alla luce del Vangelo.
Sia attraverso il Servizio Nazionale per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo sia con la Campagna “Liberi di partire, liberi di restare”, i fondi dell’otto per mille si trasformano in progetti di lotta alla povertà, in Italia ma anche fuori dai confini nazionali. Quale è il messaggio che la Chiesa vuole trasmettere?
La Chiesa italiana fin da 1990, istituendo il Servizio interventi caritativi a favore dei Paesi poveri e stanziando ogni anno una parte importante del budget 8xmille, ha inteso promuovere lo sviluppo umano integrale dei singoli e delle comunità in tutti questi Paesi favorendo progetti di formazione e di sviluppo sociale. Sono tanti i centri di salute e le scuole a tutti i livelli realizzate in luoghi di periferia dove i rispettivi Governi non sarebbero mai arrivati, grazie alla presenza delle chiese locali, delle congregazioni religiose, dei missionari e delle associazioni di volontariato. Senza dimenticare i progetti agricoli e di artigianato locale, lo sviluppo delle comunicazioni sociali, la promozione della donna, la difesa delle etnie minoritarie. Un aiuto concreto per migliorare le condizioni di vita e contribuire al rispetto del diritto a rimanere nella propria terra.
Inoltre da maggio scorso, lanciando la Campagna “Liberi di partire, liberi di restare”, nella quale la Cei ha investito 30 milioni di euro per tre anni, attraverso il Tavolo Migrazioni composto da cinque Uffici della Cei (Servizio interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo, Caritas Italiana, Migrantes, Missio e Apostolato del Mare) si riunisce regolarmente per dare uno sguardo d’insieme alla questione delle migrazioni, in particolare a quella dei minori non accompagnati e alle vittime della tratta degli esseri umani, per dare risposte concrete a progetti provenienti dai primi dieci Paesi da cui parte il numero più elevato di minori, dai Paesi di transito e in Italia, dalla partenza all’arrivo senza escludere accompagnamento necessario in caso di rientro volontario nella propria terra.