“Come ti chiami?”. L’esilio di chi soffre malattie mentali
A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, la carne sofferente degli altri.
Una legione di male che isola e violenta l’essere umano
Intanto giunsero all’altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: “Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”. Gli diceva infatti: “Esci, spirito immondo, da quest’uomo!”. E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti”. E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c’era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. (Mc 5,1-11).
C’è un sintomo peculiare che le persone malate mentali presentano con tutta evidenza, ed è la loro incapacità di comunicare, l’impossibilità di una relazione serena, a volte fino all’autolesionismo. Dicono parole, frasi magari, ma la malattia comunque innalza come un muro tra noi e loro. Proprio quel muro ci isola: noi da loro e loro da noi. Registriamo logiche diverse e interessi diversi, senza riuscire a trovare un punto di incontro. Si tratta di lontananze e di esodi che riguardano la vita e le relazioni, e che poi diventano anche fisiche e di luogo. Tuttora, i residuati psichiatrici, o i centri di igiene mentale, o gli istituti che raccolgono l’umanità ferita dei malati mentali sono appartati, a lato della vita ordinaria della gente. Una condizione difficile da accettare.
La stessa descrizione della malattia mentale non risulta agevole. Le ultime ricerche indicano nella depressione il disturbo più diffuso nel nostro paese, soprattutto nelle persone anziane. Si calcola che 2,8 milioni (circa il 5,4% della popolazione) ne soffra e questo valore raddoppia negli anziani con più di 65 anni, sfondando l’11%.
Si calcolano otto milioni di ansiosi, quattro di insonni. I disturbi mentali sono disturbi psichici e possono riguardare la sfera cognitiva, affettiva, comportamentale o relazionale; comprendono malattie psicologiche e psichiatriche, come la schizofrenia. Le malattie neurologiche sono patologie che colpiscono il sistema nervoso centrale e il sistema nervoso periferico: una delle più invalidanti è l’Alzheimer. Diventa sempre più rilevante, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, l’impatto di questa malattia e della demenza senile. Quasi il 5% della popolazione anziana ne presenta i sintomi con una punta del 14% nelle donne ultra-ottantenni. Più di cinquantamila anziani l’anno muoiono per queste malattie.
Ascoltare il grido
«Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo. È sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo … Perciò va’! Io ti mando» (Es 3,7-8.10), e si mostra sollecito verso le sue necessità: «Poi [gli israeliti] gridarono al Signore ed egli fece sorgere per loro un salvatore» (Gdc 3,15). Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto, perché quel povero «griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te» (Dt 15,9). E la mancanza di solidarietà verso le sue necessità influisce direttamente sul nostro rapporto con Dio: «Se egli ti maledice nell’amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la preghiera» (Sir 4,6) [Evangelii gaudium, 187].
La Chiesa, in quanto comunità di discepoli di Gesù, conosce l’esperienza della liberazione dall’incomunicabilità, dall’isolamento e da tutto ciò che allontana da Dio e dalla compagnia degli altri esseri umani, e per questo dal suo seno sono spesso nate comunità e realtà che si sono fatte carico delle persone che soffrono malattie mentali. Ma non si tratta di un interesse per soli specialisti: essa conosce questa liberazione quasi per statuto, perché il suo battesimo nello Spirito fu la ricomposizione dell’incomprensione e della lontananza. Quanto Babele aveva prodotto in termini di disgregazione dell’unità della famiglia umana, la Pentecoste lo restaura per l’azione dello Spirito che affida ai discepoli una missione di riunificazione: della persona umana, innanzitutto, che trova proprio nel dono dello Spirito e nell’appartenenza al Padre in Cristo le ragioni della sua dignità e la via per la propria guarigione.
«Venne all’improvviso dal cielo un fragore» dice la traduzione del testo degli Atti degli Apostoli che descrive il giorno di Pentecoste. Il testo greco dice phoné, che significa voce: è Dio che parla, proprio come Gesù fa con l’uomo di Gerasa. Certo la parola di Dio non ha un suono debole, è una parola forte, una sorta di terremoto: non di quelli che distruggono, quanto piuttosto di quelli che sconvolgono i disegni imperfetti degli uomini e comunicano un’altra prospettiva.
Per noi significa: adoperarsi affinché nessuno si senta solo o lasciato ai margini, desiderare che ci sia sempre un “Paràclito” cioè qualcuno che è chiamato accanto, che prende le difese, che consola, che dice una parola buona, sul quale si può contare.
L’inizio di una pastorale per chi soffre disagi psichici e per i suoi familiari viene dal sapere di poter contare su qualcuno. Siamo creati a immagine e somiglianza del Dio che è Trinità, per cui viviamo di relazioni e moriamo quando sperimentiamo la solitudine. Del resto, si può essere tristi da soli ma non si può far festa da soli. Da soli ci si può ubriacare, ma non fare festa. Non si affronta una malattia da soli.
Stare e agire insieme
Dei discepoli nel giorno di Pentecoste si dice che «erano tutti insieme». È la stessa espressione che si trova al capitolo diciannovesimo dell’Esodo: gli israeliti aspettano – ma poi si stancheranno di attendere – Mosè che è salito sul Sinai per ricevere la voce di Dio. La tradizione ebraica dice che questa voce dal Sinai si rifrange in settanta lingue perché tutti i popoli possano comprenderla. L’evangelista Luca riprende questo aspetto: essere tutti insieme, ma ciascuno con la propria individualità, o meglio con la propria personalità. Perché ‘essere vicino’ per i cristiani non significa massificare; significa invece cercare di capire l’altro per dare a lui quello di cui ha bisogno, preoccupandosi di fare una diagnosi accurata, non ripetitiva. Ripetitivi sono gli esami di laboratorio; la diagnosi clinica insegna a incontrare il soggetto nella sua specificità e peculiarità. E la guarigione comincia quando noi riusciamo a capire l’altro, quando l’altro si sente capito. Poi potremo anche trascinarlo a uscire dalle strade sbagliate, ma prima di tutto deve sentirsi capito, deve sentirsi compreso.
La Parola di Dio ci invita anche a riconoscere che siamo popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1 Pt 2,10). Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore. La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Quando sostiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto il suo amore che ci dà dignità e ci sostiene, però, in quello stesso momento, se non siamo ciechi, incominciamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo. Così riscopriamo che Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza. […]
A volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo (Evangelii gaudium, 268.270).
A Pentecoste discese lo Spirito e «apparvero loro lingue come di fuoco». I Vangeli registrano questo detto di Gesù: «sono venuto a portare il fuoco sulla terra» (Lc 12,49). Gesù non era un tipo sdolcinato come appare a volte da certi santini; non l’hanno messo in croce perché andava in giro a distribuire santini e a dire giaculatorie. Era un uomo di fuoco.
L’intera realtà della cura della persona o è fuoco dell’amore di Dio oppure brucia in un fuoco che l’annienta: non c’è alternativa. Dobbiamo pregare per rimanere fedeli al nostro battesimo nel Fuoco, alla nostra origine, perché in noi appaiano davvero lingue di fuoco, capaci di accendere l’amore di Dio. Se i nostri fratelli ammalati non si sentono amati, anche se si sentono curati professionalmente bene, non guariscono; guariscono solo se si sentono amati.
La verità non si conosce solo per mezzo dell’intelligenza; la si conosce solo se si ama.
Testimoniare sempre e comunque un amore che accoglie, e che accogliendo cura
E gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”. Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l’altro nel mare. I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto. Giunti che furono da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui. Non glielo permise, ma gli disse: “Và nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato”. Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto, e tutti ne erano meravigliati (Mc 5,12-20).
Lo Spirito Santo guida a tutta la verità, ci spinge a non accontentarci e a non ritenere che tutto è fatto, tutto è detto, che abbiamo compreso ogni cosa. Siamo sempre in cammino. Teofilo di Antiochia scrivendo ad Autolico e commentando la proibizione del mangiare dall’albero nel Paradiso terrestre, dice che quella proibizione non deriva dal fatto che quell’albero dava frutti cattivi. La scienza, quella autentica, dà frutti buoni. «Adamo era ancora piccolo, non gli si poteva dare da mangiare pane ma solo latte, crescendo avrebbe imparato».
Anche l’umanità è posta su questo sentiero.
Questo è la nostra chiamata e il nostro dovere: il nostro interesse pastorale verso le persone malate di mente non può venire solo dal rassicurarci che ci sono altre persone che si dedicano a stare vicino a chi soffre, ma anche dall’offrirci e dal preparare uomini e donne che possono spendere gran parte del loro tempo a ricercare nuove soluzioni di cura e nuove terapie: dal conoscere e sostenere queste persone, non isolando neppure loro dalle relazioni che fanno una comunità cristiana.
Perché il male e la sofferenza, benché possano essere trasformati nella croce di Cristo in strumento di redenzione, sono in se stessi un segno del peccato, dell’allontanamento da Dio. Lo Spirito Santo invece è lo Spirito dell’intelligenza, che comprende fino in fondo, che escogita nuove soluzioni, che non si accontenta mai.
In quanto cristiani sappiamo che la nostra vita è caduca e transeunte, e tuttavia siamo certi che c’è un sollievo che non viene da noi, ma che noi testimoniamo: la speranza di essere accolti nell’amore eterno di Dio. Questo cambia l’approccio con la vita, con la malattia, con la sconfitta da parte del male. Sconfitta solo momentanea, perché lo Spirito di Dio è lo Spirito che dà la vita, è lo Spirito creatore al cui soffio la materia informe diventa essere vivente. Per tradurre bene l’espressione biblica «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2), dovremmo intenderla così: «il respiro di Dio aleggiava sulle acque». Noi sappiamo che questo respiro è la nostra vita: non quella che invecchia e decade, non quella che è sottoposta alla prova dura della malattia, ma quella che ci accoglie per sempre. Camminiamo dunque secondo lo Spirito per essere accolti da Colui che ce l’ha donato rendendoci figli.