I credenti, un popolo forestiero e accogliente
"La missione evangelizzatrice di Gesù e della Chiesa non obbedisce alle pretese degli esseri umani, non si lascia catturare dalle urgenze dell’immediato e dello slogan «prima gli italiani» o «prima i nostri», ma si dipana vedendo il volto del Padre nei volti più sfigurati", sottolinea la biblista Rosalba Manes.
di Rosalba Manes, biblista
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. Venne a Nazaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (Lc 4,14-19).
Il Nuovo Testamento conferma la prassi del Primo circa l’attenzione allo straniero e al suo diritto all’ospitalità. Il popolo cristiano, come quello ebraico, sa di essere «straniero e pellegrino» (pároikos e parepídēmos in 1Pt 2,11; cf. anche 1,1.17;), di essere cioè ospite non residente e in movimento, in pellegrinaggio verso la vera patria. E questo perché l’ospitato diventi ospitante. Paolo, infatti, dice in Fil 3,20: il nostro políteuma (cittadinanza o comunità) è nei cieli. Tuttavia, pur essendo questa terra un’abitazione temporanea, è chiesto ai credenti, in forza del battesimo, di realizzare la dignità del Vangelo nella città di tutti. Paolo usa il verbo politéuesthai, «comportarsi da cittadini» (in Fil 1,27) perché il Vangelo esige dai credenti responsabilità pubblica e comunitaria. In Ef 2,19 poi è detto che in Cristo non si è più «né stranieri né ospiti ma… concittadini [sympolítai] dei santi e familiari di Dio», si è una famiglia senza barriere etniche. Da qui si comprende l’accento sull’ospitalità (la philoxenía o «amore per lo straniero»), requisito imprescindibile per essere epískopos, cioè leader di una comunità cristiana (com’è detto a chiare lettere in 1Tm 3,2), che appare come una manifestazione luminosa e alta dell’agápē, proprio come ci ha insegnato Gesù che fa dell’ospitalità la cornice del suo ministero itinerante e invita all’ospitalità.
Tutta la sua vita è raccontata come una cronaca dell’ospitalità ricevuta e offerta. Egli accoglie tutti coloro che incontra sul suo cammino, li accoglie nel suo cuore, nella sua compassione e si lascia ospitare da tutti, sia dai farisei che dai peccatori. Inoltre invita a vedere l’ospitalità non secondo la logica del contraccambio, ma secondo lo stile della gratuità (cf. Lc 14,12-14). Non ha dove posare il capo (cf. Mt 8,20), ma è ospitato in casa di Pietro (cf. Mt 8,14), in casa di Marta e Maria (cf. Lc 10,38-42), alle nozze di Cana (cf. Gv 2,1-11). Nei discorsi missionari invita i suoi discepoli a dimorare nelle case che li accolgono (cf. Mt 10,11-13; Lc 9,4) e sperimenta spesso insieme a loro il dramma del rifiuto e della non accoglienza (cf. Lc 9,52-53; Gv 1,11). Già l’inizio del ministero salvifico di Gesù è segnato dal dramma.
Nella sua patria a Nazaret, dove fa ritorno «con la potenza dello Spirito» (Lc 4,14) dopo il battesimo e l’esperienza del deserto, Gesù rivela la tensione tra l’agire del padre e quello umano: Dio accoglie, l’uomo rifiuta. In Lc 4,16-30, Gesù si reca di sabato in sinagoga per la liturgia e lì legge il rotolo di Isaia dove si parla dell’unto del Signore che compie i segni che inaugurano il tempo messianico, il tempo del favore di Dio verso le sue creature, più letteralmente l’anno dektós, cioè gradito, accetto, tempo in cui il volto di Dio si mostra favorevole, benefico e ospitale nei confronti dell’uomo. Mentre l’anno di Dio è dektós, l’uomo che Dio ha inviato a fare le sue veci, non è dektós, non è accolto ben volentieri nella sua terra e tra i suoi stessi concittadini, tanto che questi vogliono persino gettarlo giù dal precipizio.
Una lettura sinagogale… originale
Dopo essere stato unto dallo Spirito e aver sconfitto l’insidioso nemico che insinuava dubbi sulla sua filiazione divina, Gesù si reca nelle sinagoghe della Galilea per insegnare e rivelare il volto di Dio. La sua parola è impregnata di un messaggio ricco di bene e di salvezza e i primi destinatari di questa parola sono i suoi concittadini di Nazaret.
Luca descrive il culto sinagogale del sabato: lo shema‘, i comandamenti, la tefillah o preghiera delle diciotto benedizioni. Dopo seguiva la lettura di un brano della Torah e di uno dei profeti da parte di un laico, l’omelia e una preghiera che si concludeva con una grande dossologia (il kaddish). A Gesù viene affidato il rotolo di Isaia ed egli si alza a leggere e poi si accomoda per il commento. Il brano letto riprende Is 61,1-2, privandolo del riferimento al «giorno della vendetta» e presenta la strana inserzione di Is 58,6, proveniente dalla critica profetica sul falso digiuno di Is 58,1-14, dove Dio dichiara di preferire al formalismo religioso l’eliminazione di ogni forma di ingiustizia e l’instaurarsi di ogni forma di solidarietà.
Alla lettura segue un’omelia breve ma potente: «oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato» (Lc 4,21). Quell’«oggi» rende attuale l’opera dell’unto del Signore: Gesù si presenta come l’inviato che Dio ha unto nel battesimo in vista della missione di evangelizzare, inaugurando l’anno gradito a Dio, dove egli manifesta il suo amore e la sua ospitalità verso gli uomini e le donne: il dono della libertà, della vista/illuminazione, di un anno di grazia in cui vengono condonati i debiti. Il lieto annuncio portato dall’unto di Dio inaugura non un tempo di vendetta (come riferisce Is 61,2, ma che nella lettura di Gesù viene omesso), ma un tempo dektós, «favorevole», che nel Deutero-Isaia corrisponde al ritorno nella terra e alla ricostruzione di Gerusalemme, tempo che richiama l’anno giubilare (cf. Lv 25,8-54), cioè il cinquantesimo anno, caratterizzato dalla remissione dei debiti e dalla liberazione degli schiavi. In questo anno, ciascuno deve tornare nella sua terra, e Gesù torna nella sua terra per evangelizzare chi ha perso la terra e potergliela restituire.
Lo stupore dei presenti
Gesù si presenta ai suoi concittadini come l’unto di Dio, l’evangelizzatore per eccellenza, il Giubileo in carne ed ossa che comunica i beni del Padre. Chi è Gesù per poter dire questo? Tutti restano affascinati e, scavando tra le sue origini, colgono una verità semplice, priva di qualsiasi tratto eccezionale: egli è il figlio di Giuseppe.
La semplicità della sua origine lascia perplessi e, al tempo stesso, la “familiarità” che egli condivide con loro diventa motivo di un’elevata attesa da parte di tutti. I presenti non parlano, ma Gesù legge i loro cuori e cita un proverbio che nasconde ironia e smaschera l’attesa che i suoi concittadini cominciano a nutrire su di lui, dopo aver appreso che egli ha operato numerosi segni a Cafarnao.
Gesù accosta la figura del medico a quella del profeta. Come è ovvio che un medico, chiamato a guarire tutti, lo faccia soprattutto con sé e con i suoi, con “la sua gente”, così anche il profeta che compie i segni di Dio è chiamato a farlo nella sua terra. Gesù però constata che il profeta non è dektós come l’anno del Signore: egli non trova mai accoglienza nella propria terra. Sono troppi i pregiudizi, i condizionamenti, le chiusure, le attese/illusioni proiettare su di lui…
Limitarsi a vedere in Gesù solo «il figlio di Giuseppe» è riduttivo e non coglie la verità della sua origine divina. Desiderare inoltre che egli ragioni in termini di trattamento privilegiato rispetto ai suoi concittadini è inammissibile. Il termine dektós, «accetto», «favorevole» di Lc 4,24, usato a proposito del profeta è lo stesso che il testo usa per richiamare l’anno giubilare cui si fa allusione in Lc 4,19 (cf. Is 61,2 nella versione dei LXX). Mentre Dio inaugura un tempo gradito in cui manifesta tutta la sua ospitalità e la sua accoglienza verso gli uomini, i nazaretani non si mostrano affatto ospitali verso il suo amato Figlio.
Oltre le chiusure… un debole per gli stranieri
Per spiegare meglio il suo detto sul profeta rifiutato dai suoi, Gesù dà un esempio attraverso due figure di profeti del primo Testamento: Elia ed Eliseo, maestro e discepolo, entrambi impegnati in missioni che li hanno visti dirigersi verso gli “altri”, gli stranieri, dilatando il perimetro della salvezza. Durante la carestia che colpì Israele, Elia fu inviato ad una vedova di Sarepta di Sidone che fu innanzitutto fonte del suo nutrimento e poi anche destinataria dei suoi prodigi (cf. 1Re 17). Eliseo fu inviato a guarire dalla lebbra non un membro del suo popolo, ma un siro di nome Naaman (cf. 2Re 5,1-14). Dio ha inviato i suoi profeti agli stranieri e questi hanno accolto il suo intervento salvifico. Si sono mostrati aperti a un Dio che aveva aperto loro le porte della salvezza perché questa travalicasse i confini di Israele e raggiungesse quanti erano Non-Popolo.
Una mentalità particolaristica e mafiosa
A questo punto lo stupore e la meraviglia degli astanti si mutano in sdegno e in ira. Le parole di Gesù sono insopportabili: sembrano un’offesa ai danni del popolo dell’alleanza. È inammissibile prendere degli stranieri come esempi di destinatari privilegiati della grazia divina e come esempi di accoglienza dell’opera divina. Questo elogio degli stranieri è letto come un attacco nei loro confronti. Quell’uomo presuntuoso non è degno di stare nella casa della Parola. È degno di morte! Le parole di Gesù, foriere di vita e salvezza, provocano nei presenti un istinto di morte. La voce dell’unto di Dio è voce che urta e infastidisce, come la voce dei profeti antichi, come la voce di Giovanni il Battista. L’unica soluzione è farla tacere per sempre: uccidendo l’amore del Padre fatto carne per la salvezza di tutti gli uomini, «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Questo rifiuto però non lo ferma: Gesù va oltre, continua a camminare per evangelizzare e predicare il giubileo indetto dal Padre. La sua vita nessuno gliela toglie, è lui che la dona: per questo il Padre lo ama (cf. Gv 10,17-18) e lo ha unto per comunicare il soffio dell’amore che solo gonfia le vele della storia e la spinge in avanti.
Oltre i confini del cuore…
La missione evangelizzatrice di Gesù e della Chiesa non obbedisce alle pretese degli esseri umani, fossero pure i parenti e i concittadini, non si lascia catturare dalle emergenze, dalle urgenze dell’immediato e dello slogan «prima gli italiani» o «prima i nostri», ma si dipana abbandonandosi docilmente alle mozioni dello Spirito percepite nella preghiera e vedendo il volto del Padre nei volti più sfigurati.
Cristo ospitalità ambulante del Padre invita il suo popolo a farsi ospitale e così chiede a ogni battezzato. L’ospitalità è presente nei requisiti utili alla selezione dell’epískopos (cf. 1Tm 3,2; Tt 1,7-8) e all’iscrizione di una donna all’albo delle vedove cristiane (cf. 1Tm 5,9-10). Anche Paolo, che fa esperienza di accoglienza (da parte di Lidia, Prisca e Aquila, Febe, ecc…), invita i credenti a essere premurosi nell’ospitalità (cf. Rm 12,13: praticate a gara l’ospitalità), qualità che anche l’autore della Lettera agli Ebrei invita a praticare, sull’esempio di Abramo che, in tal modo, senza saperlo ha «accolto degli angeli» (Eb 13,2): non dimenticate la filoxenìa: per mezzo di questa, infatti, alcuni senza saperlo ospitarono angeli. E ancora: siate ospitali reciprocamente senza lamentele (1Pt 4,9).
Per questo nella Lettera a Diogneto si dice dei cristiani
abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residenti [pároikoi]; a tutto partecipano come cittadini (polítai) e a tutto assistono passivamente come stranieri (xénoi). Ogni terra straniera è per loro patria e ogni patria terra straniera… Obbediscono alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi (A Diogneto 5,5.10).
Che il Signore dilati le pareti del nostro cuore con la sua compassione attraverso una rinnovata effusione del suo amore perché sappiamo vincere la durezza del nostro cuore e credere che anche in terra arida, come è successo per il servo del Signore (eved Yhwh), può nascere un germoglio (cf. Is 53,2). Che ciascuno di noi sia questo germoglio laddove siamo!