Il Dio che ha un debole per i poveri
Il segno che contraddistingue una reale esperienza di fede e vita nuova in Cristo è l’opzione per gli ultimi, per i poveri, per quelli che la società scarta e che non sono necessariamente “quelli di casa nostra”.
«La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,32-35).
Come ci ricorda il Santo Padre nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium al n. 195, quando Paolo si recò a Gerusalemme per incontrare gli Apostoli e discernere se stava correndo bene o se invece aveva corso invano (cf. Gal 2,2), il criterio che gli fu suggerito per verificare l’autenticità del suo ministero fu che non si dimenticasse dei poveri, cosa che egli si preoccupò sempre di fare (cf. Gal 2,10). Questo criterio è valido ancora oggi nelle nostre comunità cristiane per verificare se camminiamo davvero secondo il Vangelo. Il segno che contraddistingue una reale esperienza di fede e vita nuova in Cristo è, infatti, l’opzione per gli ultimi, per i poveri, per quelli che la società scarta e che non sono necessariamente “quelli di casa nostra”. Spesso i più poveri tra i poveri vengono da lontano, parlano un’altra lingua, hanno un’altra cultura, un’altra fede, ma tuttavia sono, come noi, fatti a immagine e somiglianza di Dio Trinità, di Dio-comunione, sono nostri fratelli e nostre sorelle.
La comunità primitiva scopre la forza rivoluzionaria del battesimo, grazie al quale cadono steccati, barriere, differenze: «Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è uomo e donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28). Questo essere «uno in Cristo Gesù» conferisce dunque uno sguardo nuovo sull’altro che da estraneo diviene familiare, si fa mio prossimo. Ciò che egli vive, non può lasciarmi indifferente ma mi provoca e mi spinge ad appassionarmi alla buona riuscita della sua vita, perché abbia il necessario per giungere al compimento della sua vocazione. Perché abbia non solo il pane, ma anche il pane.
La povertà e la giustizia sfigurata
La povertà, come ci insegna la Scrittura, nasce da un disordine sociale, dall’ingiustizia e dal sopruso perpetrato da chi, disponendo di molti mezzi, tende a prevaricare sugli altri. Contro questo disordine si leva la parola profetica che fa memoria degli impegni dell’alleanza per orientare i cuori verso la via della vita e denuncia con forza tutto ciò che genera oppressione e sfruttamento e lede la dignità dell’essere umano. Nella vicenda storica di Israele ciò che ha provocato un’alterazione drastica del delle condizioni di vita delle persone è stato l’avvento della monarchia con i suoi effetti, quali il lusso della corte (cf. 1Re 5,2-8), le grandi opere pubbliche (cf. 1Re 5,27-32; 9,15), l’immissione nella rete del commercio internazionale (cf. 1Re 10,14-15), le spese per il mantenimento dell’esercito (cf. 1Sam 8,11-12). Da tutto questo parte un processo che porta al costituirsi della classe degli sfruttati, vittime del potere, cui i profeti danno voce, attraverso una parola di fuoco che punta a estirpare le radici del male.
È soprattutto il profeta Amos che denuncia le ingiustizie che innescano il processo di impoverimento del popolo che viene trascinato in una condizione simile alla servitù. Questo popolo oppresso è in balìa di uomini potenti che lo schiacciano, per cui il povero risulta essere un uomo diminuito nelle sue capacità e nel suo valore. L’assenza di difese umane pone il povero alla mercé di gente senza scrupoli, i ricchi, che «hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri» (Am 2,6-7). Accumulando ricchezze e costruendo residenze lussuose, i ricchi hanno superato ogni misura di sfruttamento e per questo su di loro si abbatte un giudizio impietoso.
Un Dio a difesa dei poveri
In difesa dei poveri si erge Dio che offre indicazioni molto precise all’interno del Codice dell’alleanza:
«Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero (‘ănî, «colui che è dipendente e sottomesso») e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,9-10; cf. Lv 23,22).
Questa prassi si basa sul fatto che il povero ha necessariamente bisogno di essere tutelato nella difesa dei suoi diritti (cf. Es 23,6). Egli, ad esempio, ha diritto alla produzione del settimo anno (cf. Es 23,11). La legge relativa al condono dei debiti nell’anno sabbatico ha poi come fondamento il principio secondo cui sarà estirpata la povertà di mezzo ad Israele (cf. Dt 15,4.12). Dio dunque ha a cuore la cura del povero, come leggiamo nel Deuteronomio:
«Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso (‘ĕbīôn) in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova. Bada bene che non ti entri in cuore questo pensiero iniquo: “È vicino il settimo anno, l’anno della remissione”; e il tuo occhio sia cattivo verso il tuo fratello bisognoso e tu non gli dia nulla: egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te» (Dt 15,7-9).
È l’invito divino a intenerire il cuore e ad aprire la mano nei confronti di chi fa fatica a tirare avanti, vivendo pienamente le esigenze dell’alleanza.
L’evangelista Luca e la passione per i poveri
Nella lode che la più benedetta delle donne, Maria di Nazaret, tesse al suo Salvatore, compare la celebrazione della prossimità di Dio nei confronti degli emarginati della storia. Dopo aver celebrato le meraviglie compiute in lei, Maria passa a descrivere il fiume di misericordia che scorre lungo le generazioni e le vivifica, e a cantare l’intervento concreto di Dio nella storia. Maria canta l’agire unico di Dio come, prima di lei, un’altra Miriam aveva celebrato in Esodo 15 con il canto del mare che resta il paradigma di tutti i canti di lode della Scrittura. Maria desidera rendere pubblico il “debole” che Dio ha per le pietre scartate dell’umanità mediante il motivo del rovesciamento che sancisce profeticamente la fine dei privilegi e delle oppressioni:
«Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Maria celebra il braccio forte con cui Dio è solito proteggere gli indifesi e neutralizzare i prepotenti. Dio non è solo un poeta innamorato delle sue creature che fa promesse, ma anche colui che fa quello che dice, coinvolgendo le sue mani creatrici nella storia per renderle anche mani protettrici. Il Dio che mette le mani nella storia non lo fa per schiacciare l’uomo ma per confondere i pensieri degli arroganti, di coloro che vogliono prevaricare con piani d’azione scaltri e invincibili; per abbattere chi si erge al di sopra degli altri; per elevare chi è a terra; per dare a chi ha troppo poco e togliere a chi è nell’opulenza; per prestare aiuto non con fare assistenzialista ma con una misericordia che è la forza dell’amore che spinge ogni promessa di benedizione verso il suo pieno compimento.
Maria canta così la bellezza del Dio grande e meravigliosamente vicino perché dalla parte dei piccoli. Egli ricolma la fame delle sue creature, fame che di certo è materiale, ma è anche intellettuale, relazionale, spirituale. La sua cura e premura verso i suoi figli abbraccia tutti gli aspetti della loro vita. Perché ogni vita (e tutta la vita) attende il compimento, aspetta di «raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
Leggendo il Vangelo di Luca, vediamo che i poveri sono oggetto delle attenzioni di Gesù, destinatari privilegiati della sua predicazione. Scopriamo anche che la povertà è parte fondamentale della sua esperienza: egli non ha nemmeno dove posare il capo (cf. Lc 9,58). Nella sua predicazione egli s’investe per far grazia in primis ai poveri, come si vede nell’episodio della lettura sinagogale a Nazaret che diventa una sorta di discorso programmatico:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Nelle beatitudini lucane i poveri diventano protagonisti del Regno e attori della sua costruzione, in antitesi con i ricchi, fustigati perché hanno già ricevuto la loro consolazione (cf. Lc 6,20-26). Nel descrivere le sofferenze del povero Lazzaro, Gesù descrive la spietatezza e l’indurimento del cuore dei ricchi e dei potenti (cf. Lc 16,19-31). Dinanzi alla tristezza con cui il notabile, invitato a donare tutto ai poveri per seguire Gesù, si allontana da lui, egli esclama: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. È più facile infatti per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio!» (Lc 18,24-25). Dal canto del Magnificat all’episodio dell’incontro con Zaccheo si assiste così ad un vero itinerario di solidarietà con i poveri e si rafforza l’invito a un stile cristiano improntato alla condivisione.
L’arte cristiana del condividere
Dall’inizio della sua predicazione del Vangelo, Paolo fa esperienza della condivisione. Viene accolto da una coppia di sposi, Aquila e Priscilla, con cui condivide la vita, il vangelo e alcune responsabilità pastorali (cf. At 18). L’Apostolo non approfitta mai della generosità delle comunità. Lavora sodo con le proprie mani (cf. 1Cor 4,12) per guadagnarsi da vivere, lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno (cf. 1Ts 2,9) e rinuncia anche al privilegio che consentiva agli apostoli di essere mantenuti dalle comunità (cf. 1Cor 9,15). Avverte la necessità di sostenere i poveri: un’attenzione che gli viene consegnata dalle colonne della Chiesa di Gerusalemme (cf. Gal 2,10). Per farlo egli offre le motivazione cristologiche del dono:
«Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. E a questo riguardo vi do un consiglio… Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno» (2Cor 8,9-10.13-15).
La condivisione con i poveri diviene per Paolo persino un atto liturgico, un inno di ringraziamento al Padre:
«Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia. Così sarete ricchi per ogni generosità, la quale farà salire a Dio l’inno di ringraziamento per mezzo nostro» (2Cor 9,10-11).
La Bibbia ci insegna che il grido dei poveri è liturgia che sale dritta al cuore del Padre. E i nostri atti liturgici salgono a Dio? Che profumo hanno? Sanno solo di incenso o anche di dono e condivisione di risorse, capacità e tempo con i fratelli e le sorelle poveri? In loro difesa Dio si erge perché fedele alle sue promesse e al suo amore che non fa preferenza di persone (At 10,34).