Poveri, anche di cultura
Dal tema della “povertà educativa”, uno dei nuovi fronti su cui occorre agire per arginare la povertà economica, a quello del reddito di inclusione che “andrebbe rafforzato e non smantellato”. Intervista a Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio Studi e Ricerche di Caritas Italiana.
Come emerge dal Rapporto 2018 “Povertà in attesa” curato dalla Caritas, in Italia sono circa 5 milioni le persone che vivono in povertà assoluta, tra cui moltissimi giovani. Alla radice di tante situazioni c’è quella che viene definita “povertà educativa”, ovvero un basso livello culturale e di istruzione. Ne abbiamo parlato con Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio Studi e Ricerche di Caritas Italiana, con il quale abbiamo anche focalizzato l’attenzione sul tema del reddito di cittadinanza. “Bisognerebbe rafforzare la misura esistente, cioè il reddito di inclusione. Sarebbe un errore smantellarla per introdurne un’altra”, afferma Nanni.
Dottor Nanni, chi sono i poveri oggi?
In base ai dati del Rapporto 2018 su povertà e politiche di contrasto curato dalla Caritas, 5 milioni di persone vivono in condizioni di povertà assoluta, un dato in crescita del 180% in 10 anni. Questo aumento ha riguardato soprattutto i giovani: su 100 persone, i giovani tra i 18 e i 34 anni in povertà assoluta sono il 10% contro il 4,6%di anziani. Si tratta di un fenomeno nuovo con cui dobbiamo fare i conti, un nuovo tipo di povertà che va affrontata tenendo conto del fatto che i giovani non sono abituati ad interagire con le strutture della Caritas e che gli anziani lo fanno poco perché dignitosi e riservati.
Un capitolo del Rapporto Caritas 2018 “Povertà in attesa” è dedicato alla povertà educativa. Cosa si intende con questa espressione?
Si intende una povertà culturale radicale, che cioè è alla radice di tante situazioni di povertà. Chi non ha frequentato le scuole ed ha una scarsa qualità di capitale formativo ha maggiori difficoltà a trovare un lavoro o a reinserirsi dopo averlo perso.
L’Italia ha il triste primato di essere prima in Europa per numero di Neet, ovvero di giovani tra i 20 e i 34 che non studiano e non lavorano, e penultima, subito prima della Romania, nella classifica dei Paesi per incidenza di laureati. È quarta in Europa per percentuale di popolazione che possiede al massimo la licenza media inferiore. Tra le persone che fanno fatica a trovare un lavoro, il 70% ha un titolo di studio uguale o inferiore alla licenza media. Tutto questo induce ad affermare che la laurea diventa un fattore di protezione dalla povertà.
Con la misura del Reddito di inclusione si è fatto qualcosa, ma tanto resta da fare. Quale è lo stato dell’arte e cosa manca?
Tra chi aveva diritto al reddito di inclusione (Rei), ovvero coloro che avevano un Isee inferiore a 6000 euro annui, in realtà lo ha ricevuto solo il 60%. Per diversi motivi, tra cui la difficoltà di accesso alle informazioni e la presenza del lavoro nero, il Rei non ha raggiunto tutte le persone che ne avrebbero avuto diritto. Crediamo dunque che bisognerebbe rafforzarlo piuttosto che lanciare una nuova misura. Anche perché il Rei è partito da poco tempo e non vi è stata, pure per un limite del precedente Governo che non l’aveva prevista, nessuna valutazione di efficacia. Non è coerente mettere in atto un’altra misura, senza aver verificato lo strumento già esistente. Come Caritas stiamo elaborando questa verifica che sarà disponibile entro la fine dell’anno e che sottoporremo al Ministero competente.
Smantellare il “reddito di inclusione” per introdurre il “reddito di cittadinanza” sarebbe dunque un errore?
Il reddito di cittadinanza punta a raggiungere tutte le persone in povertà assoluta, ma l’organizzazione viene affidata ai Centri per l’impiego che sono in affanno e non riescono ad interagire con chi ne ha bisogno in modo capillare. Basti pensare che a fronte di 3000 Centri di ascolto della Caritas, sul territorio nazionale i Centri per l’impiego sono appena 800. Si stima che ci vorranno almeno due anni per portarli a regime.
Di fronte a questa grossa difficoltà, crediamo occorra potenziare il reddito di inclusione piuttosto che introdurre una nuova misura. Il reddito di inclusione inoltre è rivolto a tutti, mentre nel reddito di cittadinanza, sebbene non esplicitato nel testo, resta un’ambiguità in quanto si continua ad accennare all’esclusione degli stranieri.
In questi giorni, in ambito politico, si parla molto di lotta alla povertà e di restituire dignità agli italiani. Quali passi bisognerebbe fare, concretamente?
Il 46% di coloro che vivono in povertà assoluta sono i cosiddetti working poor, cioè persone che hanno un lavoro ma non riescono a garantirsi un reddito sufficiente. Occorre dunque rafforzare la presa in carico dei servizi sociali. Lo sforzo che si era fatto negli ultimi due anni era stato proprio quello della definizione di un piano organico dei servizi socio-assistenziali così da prendere in carico la povertà, che non è solo quella derivante dalla mancanza di lavoro, ma anche quella dovuta agli sfratti, alle dipendenze, al gioco d’azzardo e alla precarietà della salute.
Quanto al lavoro, bisognerebbe rafforzare i Centri per l’impiego mettendoli in rete con attori della formazione professionale così da avviare anche una riqualificazione di quei 40enni che hanno perso il lavoro durante la crisi.