Una sofferenza che produce guarigione
Quaresima: culto esteriore o tempo di una nuova fioritura?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato (Is 53,2-4).
La costante della sofferenza
La sofferenza è una costante della vita umana. La Bibbia ne parla a più riprese, specie nella tradizione sapienziale, dove il Libro di Giobbe appare come la riflessione più poetica, ma al tempo stesso graffiante sulla sofferenza. La sofferenza è lo scoglio contro il quale s’infrange anche la fede più robusta. Gli evangelisti riferiscono la repulsione che ne ha avuto persino il Figlio di Dio nell’ora del Getsemani, quando manifesta la richiesta che il travaglio della Croce gli venga risparmiato. Tuttavia egli ha scelto di abbracciarla e renderla feconda.
Il servo del Signore: dall’amore di predilezione al fallimento
Nel cuore del Libro del profeta Isaia, laddove appare il cosiddetto Libro della Consolazione (Is 40–55), si incontrano quattro canti dedicati ad una figura molto speciale: il servo del Signore (‘ebed Yhwh), che entra in scena come figura di successo, ma che poi sperimenta il dramma della sofferenza. Va chiarito innanzitutto che il titolo «servo» non indica qui una persona senza diritti o costretta a eseguire comandi onerosi, ma è un titolo onorifico simile a quello di un grande dignitario che riceve l’investitura direttamente dal re. Egli ha caratteristiche sia regali (deve esercitare un potere universale) che profetiche (deve annunziare la parola di Dio, subendo derisioni e patendo sofferenze) e, subendo la prova, è chiamato a divenire strumento di intercessione e giustificazione per i peccatori.
Se i primi due canti (Is 42,1-7 e 49,1-9a) sono canti di esaltazione, gli altri due (50,4-9a e 52,13–53,12) delineando una sorta di teologia del fallimento, parlano invece di una kenosi tremenda che si muta in sorgente di vita mediante la guarigione e la riconciliazione che egli ottiene. Appare dunque un itinerario pasquale che contempla vari aspetti: si passa dall’elezione d’amore al cammino del discepolato; dall’ascolto della Parola del Signore che scava l’orecchio all’annuncio di speranza che rianima gli sfiduciati; dall’indirizzare la propria parola profetica al solo popolo di Israele al diventare profeta per le nazioni; dall’essere custodito nella faretra del Signore per essere freccia da lui scagliata per irradiare la luce della sua giustizia all’essere esposto al disprezzo, al rifiuto e ad una violenza indicibile.
La memoria della chiamata
Il servo entra in scena attraverso una sorta di oracolo di investitura (Is 42,1-7). Ricolmo dello Spirito del Signore, egli è chiamato a impiantare il diritto. Quale diritto? La volontà salvifica universale di Dio. In che modo? Senza gridare, né distruggere, con stile umile, rispettoso, mite. Chiamato da Dio e preso per mano, il servo riceve la missione di essere «alleanza del popolo e luce delle nazioni» (Is 42,6) per illuminare i ciechi e scarcerare i prigionieri. Il servo diventa così vincolo, segno dell’impegno del Signore non solo per Israele ma per tutti i popoli.
Dio sceglie il suo collaboratore e alleato non in un momento preciso, ma da sempre. L’espressione «dal grembo di mia madre» torna due volte nel secondo canto (Is 49,1-9a) che è un racconto autobiografico di vocazione e sta a sottolineare questa originarietà della chiamata, questo suo affondare le radici nell’eternità e che supera ogni volontà e ogni possibile merito.
Il servo racconta la sua chiamata e la sua missione di parlare a nome di Dio (la sua bocca è stata resa spada affilata), la cura di Dio nei suoi riguardi (egli è una freccia che non viene lanciata a vuoto, ma è custodita nella faretra divina), ma rilegge anche i momenti fallimentari, l’aver faticato «invano». Ciò che resta malgrado gli insuccessi è la fiducia in Dio e il sapere che la sua missione non è inutile.
Il prezzo della missione
La missione del servo è molto impegnativa e richiede che egli s’investa totalmente. Scopo della missione descritto nel terzo canto (Is 50,4-9a) – una sorta di salmo di fiducia, dove si comprende il “prezzo” di questa missione – è la conversione del popolo d’Israele (due volte ricorre šûb, il verbo del ritorno a Dio) e la sua restaurazione, ma anche la salvezza delle nazioni. Per fare questo, il servo è tutto teso a fare spazio alla Parola di Dio, che lo ha reso discepolo (limmûd è lo scolaro che riceve un insegnamento) e gli ha “scavato” l’orecchio, e a irradiare la luce salvifica divina. Egli accoglie la Parola divina con estrema docilità eppure incontra ostilità ed è sottoposto alla flagellazione e all’insulto. È amato da Dio e avversato dagli uomini. Malgrado la prova però egli non si sente solo, è sicuro di essere assistito dal Signore: «È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?» (Is 50,8-9a).
A questo interrogativo fa ecco il quarto canto (Is 52,13–53,12) che è un racconto di sofferenza fatto non da chi soffre, ma prima da Dio che ha destinato il suo servo a cose grandi, poi da quanti lo oltraggiano, testimoni tardivi dell’innocenza di un dolore che ha la forza di redimere il loro peccato, e infine nuovamente da Dio che annuncia la missione vicaria del servo. Il coro rilegge tutta l’esistenza tormentata del giusto: nacque, soffrì (era come un virgulto e una radice in terra arida), morì, fu sepolto. Il Signore invece sottolinea la partecipazione del servo alle sofferenze degli uomini, il suo prendere su di sé le loro colpe, il suo rendersi mediatore di riconciliazione e giustificazione e il suo vivere oltre la morte. Il servo infatti sceglie di fare delle sue trafitture non dei canali che esondano violenza, ma dei pertugi attraverso i quali può fluire la pace, il perdono, la guarigione.
Il «paradigma» del servo
È difficile identificare il servo. Nei canti egli appare la cartina al tornasole, il criterio di discernimento, per distinguere i giusti dagli empi, e la cifra dell’umanità giusta davanti a Dio chiamata a collaborare alla salvezza dei peccatori. Il suo anonimato fa di lui un paradigma interpretativo del rapporto Dio-uomo e credente-popolo di Dio, valido sempre, al di là delle contingenze storiche che caratterizzano il Libro della consolazione. Ciò significa che dove c’è un membro del popolo di Dio si realizza il paradigma del servo, dove c’è il popolo di Dio si compie la figura del servo che mostra il paradosso del destino di un uomo deputato alla giustizia che diviene bersaglio di ingiustizia. Il servo diviene così figura del popolo in esilio che soffre, è umiliato, ma non si fa giustizia da solo, aspetta che Dio intervenga e così accade: «Così dice il Signore, tuo Dio, il tuo Dio che difende la causa del suo popolo: “Ecco, io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa, il calice della mia ira; tu non lo berrai più. Lo metterò in mano ai tuoi torturatori che ti dicevano: ‘Curvati, che noi ti passiamo sopra’. Tu facevi del tuo dorso un suolo e una strada per i passanti”» (Is 51,22-23). Babilonia è una prigione e il popolo attende giustizia, confidando nella liberazione divina che non tarda ad arrivare. Il servo è figura di ogni popolo in esilio e di ogni popolo che soffre.
In modo normativo la figura del servo si realizza in Gesù di Nazaret che ha rivelato la verità del servire divino-umano, che ha mostrato che si può soffrire per colpa di altri, sopportare i loro peccati con mitezza, vincere i loro peccati con l’innocenza e così irradiare la santità nel mondo. Amato dal Padre, chiamato a portare luce e salvezza (mediante la sua parola e le sue azioni terapeutiche e liberanti) e a prendere su di sé il dolore dell’umanità intera, egli lo ha trasformato in fonte di comunione filiale e di fecondità spirituale.
È Cristo il solo giusto capace di giustificare. Egli infatti non ha subìto passivamente le prove, ma le ha accolte dinamicamente facendone un’offerta «in sacrificio di riparazione». Addossandosi le iniquità altrui, egli ha ricondotto l’uomo al progetto originario di Dio che lo ha fatto a sua immagine e somiglianza. Quest’azione giustificatrice è l’energia che emana dalla pasqua di morte e resurrezione di Cristo che permette a chiunque crede in lui di rinascere a vita nuova.
Nel Nuovo Testamento chi è questo servo se lo chiede uno straniero che interpella Filippo (cf. At 8,34). L’evangelista gli consegna il lieto annuncio di Gesù e, prendendosi cura di lui con grande carità pastorale, gli mostra il suo volto solare. Lo straniero scopre il volto di colui che è venuto «a servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28), che «ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Mt 8,17), dalle cui piaghe siamo «guariti» (1Pt 2,24-25). È il volto di Cristo che, in qualità di sommo sacerdote solidale con tutti, ha saputo immedesimarsi con noi e «prendere parte alle nostre debolezze… messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), diventando per noi «causa di salvezza eterna» (Eb 5,9). Servo e serva inoltre sono quanti, rinati dall’acqua e dallo Spirito, sanno che la via della vita passa dal servizio e dalla consegna della propria vita.
A immagine di Cristo servo del Signore, solidale con i peccatori, anche noi sua Chiesa siamo chiamati a vestire gli abiti del servizio e a investirci, immedesimandoci con le fatiche del nostro popolo e con i travagli di ogni essere umano. Questo itinerario quaresimale verso la Pasqua sarà per noi un culto esteriore o il tempo della fioritura di una sensibilità maggiore verso Dio e gli altri?