Una porta aperta, anzi spalancata

L’accoglienza vicendevole è un fatto teologico, non soltanto organizzativo, politico o sociale, e ha la sua radice nel mistero stesso di Dio e del suo Verbo fatto carne.

L’accoglienza in Cristo

In quanto apertura praticata in un muro, una porta significa la concreta possibilità di entrare e di uscire, e quindi anche l’altrettanto concreta realtà del poter dimorare in una casa o in una città. Per varcare la soglia di una porta, dobbiamo desiderare o aver bisogno di entrare; e dobbiamo sperare che dall’altra parte ci sia qualcuno che ci accoglie. La buona notizia del vangelo, come scrive un grande teologo,  è che «Dio non è una fortezza rinchiusa che noi con le nostre macchine da guerra (ascesi, introspezione mistica, ecc.) dobbiamo espugnare, è invece una casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati a entrare» (H. U. von Balthasar, Tu coroni l’anno con la tua grazia, Jaca Book, Milano 1990, 111).
La grazia della fede ha perciò a che fare con l’accoglienza, ricevuta e offerta.
Nell’Antico Testamento ebraico il termine fondamentale che indica la città è ‘ir, e propriamente indica un insediamento umano chiuso, spesso «con alte mura, porte e sbarre» (Dt 3,5). La città si differenzia da altri insediamenti in forza della sua maggior difesa, dovuta appunto alla sue mura e ai suoi sistemi di sicurezza. Ma il bene e la salvezza non coincidono con la sicurezza: non li possono garantire né i muri né alcun’altra costruzione umana. L’uomo non può sperare che una cosa fatta dalle sue mani si possa sostituire a quel che solo Dio può donare e garantire. È questo il tema – decisivo – dell’idolatria: quando Dio è sostituito da un idolo, tutto l’ordine del mondo si corrompe e si ritorce contro l’uomo, trasformando le cose di questo mondo da strumenti di vita a cause di morte, non solo morale. Per questo la Bibbia esprime una certa diffidenza verso la città intesa così: autosufficiente e sicura di sé, delle proprie forze. Un tale giudizio è evidente fin dal quarto capitolo della Genesi, dove si racconta che Caino – dopo il fratricidio – «si allontanò dal Signore, e abitò nel paese di Nod a oriente di Eden […] poi divenne costruttore di una città» (Gen 4,16-17).
Per accogliere occorre non aver bisogno di muri, e cioè aver riconciliato in se stessi la paura del prossimo sentito come nemico, l’istinto omicida, la sfiducia nella presenza e nell’azione del Signore, nella bontà del suo disegno creativo che ha voluto e vuole uomini diversi chiamati a riconoscersi e a vivere come fratelli.

L’accoglienza di Cristo

L’accoglienza vicendevole è un fatto teologico, non soltanto organizzativo, politico o sociale, e ha la sua radice nel mistero stesso di Dio e del suo Verbo fatto carne. Un tale fondamento impegna chi vive nella grazia di Cristo a lasciarsi convertire il cuore, che continuamente si corrompe dietro agli idoli creati dalla paura.
Dalla Bibbia ci viene rivelata una correlazione tra solitudine, paura di morire o di essere uccisi, costruzione della città e delle mura, chiusura delle porte. Quando questi elementi non si aprono all’invocazione e all’alleanza di Dio – cioè alla speranza/certezza che Dio tiene saldamente nelle sue mani l’esistenza dell’uomo, perché egli stesso l’ha pensata e voluta, ne conosce il significato, l’ha amata e destinata a non finire ma, anzi, a unirsi alla sua – necessariamente devono affidare a un qualche idolo il compito di creare una vita rassicurante e pacifica.
Il mistero che Paolo contempla in 2 Cor 5, 14-21 e alla luce del quale gli è rivelata la carità, è che il corpo stesso del Figlio di Dio è stato aperto e vulnerato:

«Hanno trapassato le sue mani e i suoi piedi, e squarciato il petto con la lancia; e attraverso queste ferite io posso ‘succhiare miele dalla rupe e olio dai ciottoli della roccia’(Dt 32, 13), cioè gustare e sperimentare quanto è buono il Signore. Egli nutriva pensieri di pace ed io non lo sapevo. Infatti chi conobbe il pensiero del Signore? O chi gli fu consigliere? (Rm 11, 34). Ora, il chiodo che è penetrato è diventato per me una chiave che apre, onde io possa gustare la dolcezza del Signore: cosa vedo attraverso la ferita? Il chiodo ha una voce, la ferita grida che Dio è davvero presente in Cristo e riconcilia a sé il mondo. La spada ha trapassato la sua anima e il suo cuore si è fatto vicino, per cui sa essere compassionevole dinanzi alle mie debolezze. Attraverso le ferite del corpo si manifesta l’arcana carità del suo Cuore, si fa palese il grande mistero dell’amore, si mostrano le viscere di misericordia del nostro Dio, per cui ci visiterà un sole che nasce dall’alto»
(san Bernardo di Chiaravalle, sul Cantico dei Cantici, Disc. 61, 3-5).

Quali implicazioni ha per noi il mistero dell’accoglienza che Cristo ha fatto di noi in se stesso, e per suo tramite, nella vita stessa di Dio Tre volte Santo, rendendoci non più “stranieri né ospiti”, ma “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2, 19)? Possiamo rileggere in questa prospettiva il secondo capitolo della lettera agli Efesini, per lasciarci illuminare nel profondo e trovare la sorgente stessa dell’accoglienza, che faccia della nostra vita e delle nostre comunità luoghi pieni di “porte aperte”, anzi spalancate.

Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell’aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli. Nel numero di quei ribelli, del resto, siamo vissuti anche tutti noi, un tempo, con i desideri della nostra carne, seguendo le voglie della carne e i desideri cattivi; ed eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. 
Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo. 
Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. 
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia. 
Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. 
Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito. (Ef 2, 1-22)

Impregnati di una benevolenza autentica, solidale nel profondo e consapevole di tutti i complessi fattori in gioco, ci sarà così possibile diventare soggetti attivi e propositivi non soltanto di azioni pastorali ma anche politiche, sociali e culturali che consentano a chi non vuole lasciare la propria terra, di esercitare il diritto naturale a rimanervi; e a chi invece bussa alla porta di un’accoglienza duratura, di trovare in noi coloro con i quali tessere le prime, necessarie relazioni di conoscenza, orientamento, aiuto, stabilizzazione, integrazione.

«È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (Evangelii Gaudium, 210).