“Non ci sia altro vanto”
Occorre imparare a guardare al Crocifisso nella giusta prospettiva.
Quando ci si incammina sulla via della giustizia e della solidarietà, o ci si impegna in un servizio di carità, prima o poi ci si trova davanti a un dilemma: conta più la promozione umana, l’aiuto all’uomo e al suo benessere, o l’evangelizzazione, l’offerta di una comunione con e in Cristo? Dobbiamo offrire protezione e integrazione, o Gesù Cristo e la fede? Conta di più l’emancipazione sociale o la Redenzione? Le nostre azioni, quel che a livello sociale riusciamo a cambiare, o la Croce del Signore? Ci sono cristiani che si ritrovano come scissi di fronte a queste alternative, con ragioni diverse ma pur sempre convincenti, perché contenenti comunque della verità.
Non tardiamo a comprendere che è proprio la contrapposizione tra le due ad essere cristianamente insostenibile e facilmente cerchiamo una via di soluzione non negando il valore dell’una né dell’altra – almeno in via teorica.
Tuttavia, concretamente e nel profondo dell’anima, avvertiamo un certo disagio e una certa vergogna della Croce del Signore: un po’ la temiamo, ne abbiamo paura, come abbiamo paura di ogni sofferenza; un po’ la consideriamo il retaggio di una spiritualità dolorifica che occorre lasciarsi alle spalle. Non così san Paolo:
Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.
Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo che vengono ridotti al nulla; parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: ‘Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo,queste ha preparato Dio per coloro che lo amano’ (1 Cor 2, 1-9).
Occorre riconciliarsi con la Croce, avere accesso alla sua sapienza che è poi la via della salvezza e della novità di vita che noi e ogni essere umano cerchiamo.
Poiché l’amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro. Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 14-21).
Che cosa è la salvezza?
A ben vedere, si tratta, ancor più fondamentalmente, di convertirsi ancora e sempre al rapporto cristiano tra la fede e la prassi: e questo anche dinanzi alle critiche – perlopiù marxiste, o dei cosiddetti “maestri del sospetto”, ma pure quelle quotidiane delle persone più semplici – circa l’inutilità e l’inefficacia della salvezza cristiana rispetto alla prassi emancipatoria di cui i bisognosi e gli esclusi nel mondo hanno certamente bisogno.
Il tema è delicato, perché si tocca un punto importante della nostra vita di fede: tuttavia non si può non notare come l’opposizione tra emancipazione e Redenzione nasca non dalla fede ma da una subalternità ideologica, nella quale viene posta la fede stessa della Chiesa. Vi sono ricadute negative e preoccupanti che un’impostazione del genere procura non soltanto all’accoglienza di chi ha bisogno di noi o alla pastorale sociale e caritativa della Chiesa in generale, quanto proprio alla fede nella Redenzione: in definitiva si tratta di sapere che cosa sia la salvezza, se l’uomo ne abbia bisogno e se il compito della Chiesa sia ancora quello di far incontrare tra loro il Redentore e gli uomini, o proporre invece un’autosalvezza chiamata emancipazione.
Nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).
Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.
(papa Francesco, Dal discorso alla Chiesa italiana al Convegno di Firenze).
Non è difficile scorgere, dietro a certe alternative, quella radice che chiamiamo “peccato originale”: la volontà di non dipendere da Dio, l’incapacità di accettare che Lui sia la nostra vita, la ribellione alla logica di un dono che non vogliamo ricevere, perché preferiamo essere premiati per le nostre bravure e non soccorsi e risanati nelle nostre incapacità e nelle nostre ferite. Mentre la salvezza, insegna san Paolo, non è una “cosa” o una “prassi”, ma il dono di Gesù Cristo stesso, “e questi crocifisso” (cfr. anche Ef 4, 11-32).
La salvezza che cerchiamo e di cui abbiamo bisogno consiste nel poter dare e ricevere amore, e questo universalmente (deve riguardare tutti, nello spazio e nel tempo), secondo una misura e una durata che può essere garantita solo da Dio. Se la felicità umana è così esigente e così inafferrabile, soltanto un Dio può concederla. Essa non consiste comunque in un avere o in un fare, ma in un senso/significato di quel che siamo e di quel che viviamo.Una salvezza ordinata politicamente non è ancora salvezza, e un’emancipazione prodotta soltanto dall’esterno non rende liberi.
La salvezza rimane legata all’amore, in definitiva alla Carità espressa dal costato aperto del Redentore (cfr. Deus Caritas Est, nn. 12.19), e per questo abbiamo bisogno di riconciliarci con la Croce, abbracciandone tutto intero l’inesauribile mistero, che è umano e divino.
Riconoscere e crescere nella sapienza della Croce
Abbiamo bisogno di riconoscere la totalità e la radicalità dell’amore di Dio che, per salvare il servo, abbandona alla morte il Figlio (Preconio di Pasqua). Questo rapporto con la Croce è personale, proprio a ciascuno di noi; ed è di popolo, di Chiesa e di umanità. Nel dolore, nel male e nella morte siamo stati raggiunti dal Signore: per questo possiamo essere liberati dall’ossessione che prende quanti pensano che il senso della vita consista unicamente nell’avere meno noie, meno disturbi, meno dolori possibili; e possiamo essere liberati da un equivoco – oggi più diffuso che mai – e cioè che la Croce nella vita sia un incidente di percorso evitabile; e che anche la sofferenza (in quanto prezzo dell’amore, del dono di sé) sia una realtà che si può fuggire a ogni costo, da eliminare con ogni mezzo.
Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno dei palazzi di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio.
Camminare, edificare-costruire, confessare. Ma la cosa non è così facile, perché nel camminare, nel costruire, nel confessare, a volte ci sono scosse, ci sono movimenti che non sono proprio movimenti del cammino: sono movimenti che ci tirano indietro.
Questo Vangelo prosegue con una situazione speciale. Lo stesso Pietro che ha confessato Gesù Cristo, gli dice: Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivo. Io ti seguo, ma non parliamo di Croce. Questo non c’entra. Ti seguo con altre possibilità, senza la Croce. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore. Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia, abbiamo il coraggio, proprio il coraggio, di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l’unica gloria: Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti.
(papa Francesco, Omelia nella Cappella Sistina, 14 marzo 2013).
La Croce di Cristo non è semplicemente un fatto storico: è un disegno divino che a noi continua ad apparire come uno “scandalo” sopra il quale inciampiamo (cfr. 1 Cor 1,23) e non la “sapienza” di Dio di cui abbiamo bisogno per vivere. Forse abbiamo bisogno di riflettere e di crescere di più in questa misteriosa sapienza della Croce. Avere a che fare ogni giorno con il dolore, le sofferenze, le tribolazioni, le tante povertà, le ingiustizie e le persecuzioni che alimentano la vita del mondo… con una prospettiva solo orizzontale, togliendo cioè la loro relazione con la Croce del Signore e con la salvezza che quell’amore immette in ogni morte, non fa che impoverire la nostra fede, e ci impedisce di vedere le cose nella luce con le quali il Signore le vede e vuole che noi stessi le vediamo.
Forse «proprio perché c’è il rifiuto sistematico, ideologico e pratico del Mistero del Cristo Paziente e Crocifisso, oggi il paganesimo dilaga sotto tutte le forme: le forme superbe della cultura senza Dio, le forma goderecce del costume senza freni, le forme curiose e inquiete delle avidità senza confini» (A. Ballestrero, Meditazioni sulla pazienza, Piemme, Casale Monferrato 1996, 16).
Marx, ma anche Nietzsche e Freud ci hanno insegnato a vergognarci di Gesù Crocifisso, rubandoci così il nostro Salvatore.