Onorare chi è costretto a fuggire

Non possiamo, con troppa facilità e altrettanta superficialità, considerare immigrati e rifugiati come intrusi che vengono a rubarci il pane o a disturbare la nostra pur legittima quiete. Né è sufficiente versare lacrime sulle loro bare.

“Fuggi!”

Matteo ci presenta la famiglia di Nazaret sulla via dolorosa dell’esilio, di una vera e propria migrazione forzata, in quanto non voluta e piuttosto  costretta dalla violenza e dalla volontà persecutoria di Erode, cioè di un potere politico ingiusto o comunque prevaricatore: Giuseppe, Maria e Gesù vivono la condizione drammatica dei profughi. È una strada che, in un certo senso, anticipa già quella del Calvario.  

Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio (Mt 2, 13-15).

Troppe famiglie possono oggi riconoscersi in questa vicenda. Non sono nostri conterranei, ma che importa? Sono sempre fratelli nostri. Guerre, persecuzioni politiche, miseria, fame… spezzano crudelmente un numero sempre più crescente di famiglie. In terre lontane dalla loro, anche quando magari riescono a trovare lavoro, non sempre incontrano accoglienza vera, umanità, rispetto, riconoscimento della loro dignità, apprezzamento dei valori di cui sono portatori: e questo succede anche tra noi che siamo cristiani.
Non basta commuoversi davanti al quadretto di Giuseppe, Gesù e Maria – sotto la palma o sopra l’asinello – costretti a muoversi verso l’ignoto. È decisivo ce ci mettiamo in sintonia con il dramma di tanti immigrati, emigrati, rifugiati, deportati, spessissimo vittime di ingiustizie e di sfruttamento. Non possiamo con troppa facilità e altrettanta superficialità considerarli degli intrusi che vengono a rubarci il pane o a disturbare la nostra pur legittima quiete. Sono figli di Dio.

La piaga delle migrazioni forzate

«Un’altra sfida alla pace che è sotto i nostri occhi, e che purtroppo assume in certe regioni e in certi momenti il carattere di vera e propria tragedia umana, è quello delle migrazioni forzate. Si tratta di un fenomeno molto complesso, e occorre riconoscere che sono in atto sforzi notevoli da parte delle Organizzazioni internazionali, degli Stati, delle forze sociali, come pure delle comunità religiose e del volontariato, per cercare di rispondere in modo civile e organizzato agli aspetti più critici, alle emergenze, alle situazioni di maggiore bisogno. Ma, anche qui, ci rendiamo conto che non ci si può limitare a rincorrere le emergenze. Ormai il fenomeno si è manifestato in tutta la sua ampiezza e nel suo carattere, per così dire, epocale. E’ giunto il momento di affrontarlo con uno sguardo politico serio e responsabile, che coinvolga tutti i livelli: globale, continentale, di macro-regioni, di rapporti tra Nazioni, fino al livello nazionale e locale» (papa Francesco a un gruppo di Ambasciatori, 15 maggio 2014).

La retorica delle “ondate migratorie” utilizzata spesso nella narrazione mediatica dei flussi migratori diretti verso l’Europa e connessi a guerre, persecuzioni politiche e povertà estrema nei Paesi d’origine, cela una realtà molto complessa. Forse è questa complessità inafferrabile a crearci disagio, se non fastidio e frustrazione da impotenza.
I dati dell’Agenzia per i profughi delle Nazioni Unite (biennio 2014-2015) stimano un numero di rifugiati nel mondo compreso tra i 14 e i 15 milioni, ospitati in grandissima parte da Paesi extraeuropei. Basterebbe pensare alla Giordania o al Libano. In questo biennio (e precisamente nel 2014), l’Europa e l’Italia hanno accolto rispettivamente 3.107.000 e 93.000 rifugiati. L’Italia (nonostante sia per molti il Paese di arrivo) è agli ultimi posti per incidenza del numero di rifugiati sulla popolazione, mentre gli unici Paesi europei dove i rifugiati superarono l’1% della popolazione risultarono in quell’anno la Svezia e Malta. È per non aggravare questo carico relativamente esiguo che l’Europa, culla dei diritti umani, sta attuando politiche restrittive per il controllo dei flussi migratori.
Ma ci sono anche migrazioni forzate che non fanno rumore, perché difficili da quantificare, e che non sono tutelate dal diritto internazionale; risultano perciò particolarmente complesse da comprendere (e da spiegare) anche ai cristiani italiani.
Secondo i dati del Global Report on Internal Displacement (2016) pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre, nel mondo ci sono 40,8 milioni di sfollati interni, cioè pressappoco il doppio dei rifugiati. Ogni giorno, nel 2015, 66.000 persone hanno abbandonato i propri luoghi d’origine pur rimanendo all’interno del proprio Paese: il che significa un numero di persone pari ai due terzi dei rifugiati ospitati dall’Italia in un anno. L’equivalente in un anno delle popolazioni di New York, Londra, Parigi e del Cairo messe insieme.
Nel 2015 guerre, violenze e disastri naturali hanno prodotto 27,8 milioni di “sfollati interni” nel mondo. Di questi 19,2 milioni lo sono per calamità naturali. Più del numero dei rifugiati in un anno. Negli ultimi otto anni è stato registrato un totale di 203,4 milioni di sfollati interni collegati a disastri e calamità naturali. Tra le aree più colpite l’India (3,7 milioni di sfollati), la Cina (3,6 milioni) e il Nepal (2,6 milioni). A disastri e calamità naturali bisogna anche aggiungere le migrazioni forzate per cause ambientali più direttamente connesse a fattori di origine umana, che rimangono spesso ignote ed estranee a statistiche generali perché difficili da quantificare e perché si tratta di migrazioni forzate dovute a più cause che interagiscono tra loro e sono a lenta insorgenza.
Siccità e progetti di sviluppo, ad esempio, soprattutto dighe, progetti di sviluppo urbano e mega-eventi (come le Olimpiadi di Rio), sono all’origine di milioni di sfollati seppur diluiti nel tempo.
I modelli di produzione e di consumo sono in grado di determinare da se stessi equilibri e squilibri ambientali, agendo sulle forze della natura come regolatori di flussi umani, potenziandone o depotenziandone gli effetti. Attraverso l’alterazione di equilibri naturali, economici e sociali, l’uomo è causa di migrazioni non solo quando ad una sua azione corrisponde direttamente lo spostamento di individui o gruppi, ma anche quando le responsabilità sono indirette o interagiscono con altri fattori. C’è tutto questo oltre la situazione dell’Europa che ci interessa più da vicino, e che tentiamo di arginare anche affidandoci al supporto di Stati non esattamente vincolati dal rispetto dei diritti umani o dal funzionamento di istituzioni democratiche o dall’attenzione mediatica: ad esempio la Libia di Gheddafi prima, la Turchia di Erdoğan oggi. Un’ondata migratoria silenziosa fatta di vittime. Come Giuseppe, Gesù e Maria.

Sentire questa piaga sulla nostra pelle, come nostra

In quanto credenti e Comunità cristiana siamo accomunati alla condizione di chi vive sradicato dalla propria terra: siamo anche noi chiamati a vivere da esiliati (cfr. 2 Cor  5, 1.6-9). È importante – se non decisivo – che sentiamo la condizione di un esiliato come una condizione che tocca la nostra identità nel profondo. In un certo senso, ne va della nostra stessa vocazione alla libertà. Questa vocazione e questa identità comportano un reagire a tutto ciò che, nella nostra società, rappresenta una minaccia per la persona, la vita, lo spirito, la libertà, la famiglia. Si tratta di mettere in salvo valori preziosi, senza i quali l’esistenza stessa sarebbe disumana: la libertà personale, la coscienza, la libertà di pensare, i valori in cui crediamo, la fede che vogliamo vivere… e questo pur di non subire condizionamenti, manipolazioni, schiavitù o violenze. Pur essendo nel mondo, dobbiamo prendere le distanze da ciò che si manifesta e agisce come prepotenza, prevaricazione, ingiustizia, negazione della nostra dignità di figli di Dio. Come tutti i migranti forzati, in quanto cristiani conserviamo nel cuore il richiamo di una terra dove vi sia la possibilità di essere se stessi, in comunione con Dio e con gli altri. Cerchiamo una terra di pace, di rispetto, di armonia, di amicizia disinteressata. A costo di essere perennemente in esilio.
Il comandamento di Dio onora il padre e la madre (cfr. Es 20, 12) ci chiede di onorare chiunque sia padre e madre, a cominciare certamente da nostro papà e nostra mamma, ma riconoscendo come tali (e interpretando sotto questa luce le loro scelte) quei genitori che – come Maria e Giuseppe – scappano o emigrano forzatamente pur di salvare i loro cari e i loro figli. “Onorare” è più che “sopportare”. E “onorare” non significa “sbarazzarsi” o “ignorare” o sistemare in qualche modo una presenza fastidiosa. Onorare vuol dire riconoscere il valore sacro di una persona, indipendentemente dal fatto che le sue mani siano in grado di fornire prestazioni interessanti, guadagni, o di assicurarci beni materiali o denaro.
Il libro del Siracide (Sir 3,2-6.12-14) insegna che i peccati vengono scontati con la pietà nei confronti dei genitori anziani. Ma lo stesso, per estensione, si può dire di tutti i genitori, compresi quelli costretti a emigrare forzatamente: come saranno scontate le offese alla loro dignità, ai loro bisogni, alle ingiustizie che si trovano a patire contro la loro volontà? Versando lacrime sulle loro bare, o sulle loro condizioni spesso senza umana speranza? L’amore vero, piuttosto, si adopera a non far spuntare lacrime sugli occhi dei vivi.