Patria diversis gentibus una?

Se la storia è maestra di vita, l’informazione rappresenta uno strumento per contrastare il pressappochismo dei benpensanti.

« [Roma] sospes nemo potest immemor esse tui […] | Fecisti patriam diversis gentibus unam… » (« O Roma, nessuno, finché vive, potrà dimenticarti… Hai riunito popoli diversi in una sola patria». A cantare queste parole nel De reditu su (I, 52, 63), è Claudio Rutilio Namaziano, nel suo celebre poema  sulla decadenza dell’Impero Romano d’Occidente nel V secolo. Namaziano stava infatti facendo ritorno dall’Urbe alla sua terra d’origine, la Gallia. Durante il viaggio descrive una società in decadenza, contaminata dalle numerose popolazioni barbare ormai infiltratesi nel suo tessuto connettivo, al contempo narrando le passate e ormai perdute bellezze di Roma. Dopo aver ricoperto la carica di Praefectus urbi nel 414, s’imbarcò tre anni dopo a Portus Augusti per tornare in patria e in quella circostanza colse l’occasione per descrivere il suo viaggio dalla foce del Tevere a Luni (antica città romana che si trova attualmente al confine tra Liguria e Toscana). D’altronde, le vecchie strade consolari di terra erano ormai in rovina e malsicure, per cui non restava che costeggiare il Mar Tirreno per non correre il pericolo di finire nelle mani dei briganti.
Oltre alla descrizione degli spettacoli naturali e ai ricordi eruditi che affiorano a ogni tappa del viaggio, sono notevoli nel poema l’amore per la bellezza e la grandezza di Roma, che egli avverte, quasi visceralmente, con animo pagano, avverso al Cristianesimo. Sta di fatto che in una lunga apostrofe a Roma (I, 47-164), proprio nel verso 63 di cui sopra, Namaziano esalta la grandezza dell’Urbe come unica patria di genti di ogni terra: fecisti patriam diversis gentibus unam. Roma, d’altronde – egli lo sapeva bene – aveva dovuto confrontarsi, nella complessità geopolitica di duemila anni fa, con realtà etniche, culturali e politiche assai diverse tra loro, come quelle degli Etruschi, del mondo magnogreco, delle popolazioni Tosche dell’Appennino o dei Celti dell’Italia settentrionale, in quel complesso fenomeno di interscambio noto come «romanizzazione» (concetto questo a cui gli studiosi attribuiscono un ventaglio diversificato di significati). Un’accolita, dunque, di identità e di alterità da integrare che l’Impero, a modo suo, era stato  capace di assimilare grazie alla sua fortissima identità legata anche agli strumenti giuridici che la grande città egemone, Roma per l’appunto, adottò nel corso dei secoli.
Ma possiamo allora identificare l’Impero Romano come un esempio vincente d’integrazione dei popoli? Se da una parte è vero che la cosiddetta «Pax Romana» era impositiva e di matrice militare, di fatto essa realizzò un’assimilazione che si estese gradualmente, arrivando addirittura ad accettare che al trono imperiale salissero personaggi provenienti da quasi tutte le province dell’Impero. Come ha osservato pertinentemente il professor Giovanni Brizzi, ordinario di Storia Romana all’Università di Bologna: «Le classi dirigenti del mondo antico – etrusche, sannitiche, galliche o orientali – tendono ad accettare la proposta che viene da Roma centralizzata di diventare consortes imperii. Parliamo così di un’assimilazione che si preoccupa soprattutto delle classi dirigenti e questo crea una coesione di interessi e di obbiettivi comuni che discendono in tutti gli aspetti della società civile. La struttura politica del mondo antico è tendenzialmente aristocratica»[1].
In effetti, a pensarci bene, anche oggi le oligarchie finanziarie transnazionali – da quelle radicate nella City londinese, a quelle legate alle Petromonarchie del Golfo – hanno questa valenza anche se poi esercitano un potere per certi versi più spregiudicato all’insegna della massimizzazione dei profitti scavalcando la Res publica dei popoli. Viene spontaneo domandarsi a questo punto se Roma sarebbe stata in grado di integrare al proprio interno (allora ancora non esisteva) il vasto areopago islamico, con le sue molteplici componenti culturali. Trattandosi di un monoteismo, le difficoltà non sarebbero certamente mancate soprattutto se si considera, per analogia, che lo stesso Namaziano, durante il suo viaggio, nel De reditu su approfittò per tracciare alcune osservazioni sulla sua epoca e sui cambiamenti dei costumi. Innanzitutto la diffusione rapida del Cristianesimo. Benché i fedeli del Nazareno fossero beneficiari della legge di libertà di culto indetta da Costantino, per Namaziano appaiono come gente rozza e ignorante che vive nelle catacombe «al di fuori della luce», seguendo le strane dottrine dei propri pastori. È evidente che il monoteismo della Cristianità entrava palesemente in conflitto con il politeismo teocratico dello Stato, negando la divinità dell’imperatore. Le persecuzioni nei confronti della Chiesa dei primi secoli, anche dopo Costantino, ebbero questa valenza. Sta di fatto che la caduta dell’Impero fu certamente causata da una molteplicità di fattori. L’attenzione degli storici si è rivolta, ad esempio, alle cause economiche. A causa della vastità del territorio, crebbe la spesa per amministrare e difendere l’Impero e vennero introdotte tasse sempre più gravose. Ciò danneggiò i piccoli e medi proprietari terrieri che non poterono più pagarle e furono costretti a vendere i propri possedimenti. Fu lo storico russo Michail Rostovcev (1870-1952) che dedicò un importante lavoro alla Storia economica e sociale dell’Impero Romano, sottolineando con forza la decadenza dell’economia. Altri studiosi hanno invece rilevato gli aspetti dovuti al mantenimento della Pax romana, che richiedeva la presenza di numerose e ben addestrate legioni. Il reclutamento dei soldati gravava sull’agricoltura, perché sottraeva braccia al lavoro nei campi; le spese per arruolare e mantenere i soldati erano molto elevate; per fare fronte alle spese era necessario aggravare la tassazione; il peso delle tasse provocava il malcontento della popolazione.
Per non parlare di quanto scrisse Ammiano Marcellino, nel suo «Rerum Gestarum Libri»[2], in cui racconta di come, verso la fine del IV secolo d.C. l’Impero Romano fu costretto a misurarsi con una crisi umanitaria senza precedenti, quella dei profughi Goti: era l’anno 376. In condizioni di estrema emergenza, questo popolo in fuga dagli Unni venne fatto entrare nell’Impero. Purtroppo una serie di eventi mandò in blocco il sistema di accoglienza. L’operazione umanitaria venne, infatti, gestita in modo corrotto dai generali romani che intravidero la possibilità di intascare grossi profitti in nero, costringendo i Goti a pagare le razioni che avrebbero dovuto essere distribuite gratuitamente e per cui il governo di Roma aveva peraltro stanziato i fondi. A ciò si aggiunse un mix di incompetenza e mancata percezione dell’inizio di un nuovo fenomeno migratorio di massa che avviò, inesorabilmente, la civiltà romana al suo tramonto. E dire che molti dei Goti erano già ben integrati ed avevano acquisito la cittadinanza romana. Addirittura alcuni erano diventati legionari e venivano mandati in giro per l’Impero a difenderne i sacri confini. Improvvisamente, però, la disastrosa gestione dell’ingresso dei Goti (noi diremmo oggi di «nuovi immigrati») provenienti da Oriente segnò l’inizio della fine. Dopo essere entrati in gran numero nell’Impero e aver subito abusi eccessivi da parte delle autorità, i Goti si ribellarono. La conseguenza fu la sanguinosa battaglia di Adrianopoli (378 d.C.) con cui sconfissero l’imperatore Valente. Come si vede, un avvenimento importante come la caduta dell’Impero Romano può essere studiato da molti punti di vista e sotto differenti aspetti storiografici. E se da una parte è vero che il mondo romano di allora era molto diverso dal nostro – le donne, ad esempio, erano escluse dai giochi politici, anche se alcune di loro esercitavano parzialmente il potere dietro le quinte –  dall’altra è evidente che Storia è sempre e comunque magistra vitae. E sì, perché l’integrazione è un fenomeno estremamente complesso in cui lo Stato di Diritto è chiamato a svolgere un ruolo di mediazione nella gestione dei flussi migratori. Fino a quando Roma è stata in grado di farlo, lo Stato ha tenuto; nel momento in cui si è innescato un decadimento del suo sistema di governo, il governo imperiale d’Occidente è imploso.
Ecco che allora, oggi, in un mondo fortemente globalizzato  su base economica e non politica, il rischio, sempre in agguato, è la tendenza a identificarsi nei microcosmi, nelle piccole realtà quasi di “quartiere”, parcellizzando a dismisura il tessuto sociale. Un tema, questo, che si inserisce a pieno titolo nell’attuale dibattito europeo che sempre di più ruota, con modalità ossessive, intorno a parole chiave come identità, appartenenza, radici giudaico-cristiane, globalizzazione, internazionalismo, nazionalismi, regionalismi e chi più ne ha , più ne metta. In questa prospettiva, inutile nasconderselo, la sfida, prima ancora che essere sociale, politica od economica, è culturale.
Secondo una recente indagine dell’Europarlamento[3], il 69% dei cittadini europei ritiene che le misure d’integrazione dei migranti nelle società del Vecchio Continente siano un investimento necessario nel lungo periodo e una percentuale analoga considera l’integrazione un processo bidirezionale per i migranti e per le società ospitanti. L’indagine, tra l’altro, rileva che solo una minoranza dei cittadini europei ritiene di essere ben informata sui temi della migrazione e dell’integrazione. I cittadini europei tendono anche a sopravvalutare la presenza nel proprio paese di migranti provenienti da paesi terzi: in 19 Stati membri, la quota effettiva di migranti extra UE corrisponde alla metà, o meno, della loro quota stimata. E allora se la Storia è maestra di vita, l’informazione rappresenta davvero uno strumento per contrastare il pressappochismo dei benpensanti, quelli dell’odierno Basso Impero.

 

[1] http://www.ilgiornale.it/news/roma-imperiale-patria-modello.html
[2] http://lastoriaviva.it/quanto-sei-barbaro-parte-1-fine-dellimpero/
[3] http://www.integrazionemigranti.gov.it/Attualita/Notizie/Pagine/L-integrazione-dei-migranti-nell-Unione-Europea.aspx