Le chiavi del cambiamento

Le chiavi del cambiamento

Paura e indifferenza sono facce della stessa medaglia. Intervista a don Bruno Bignami, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, con delega per l’Apostolato del Mare.

Incontro, relazione e integrazione: tre chiavi per uscire dalla paura, un sentimento che rappresenta l’altro volto dell’indifferenza. Per don Bruno Bignami, vicedirettore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, con delega per l’Apostolato del Mare, bisogna agire a livello educativo e culturale. Anche per ribaltare una certa concezione di lavoro.

Ricevendo nei giorni scorsi i nuovi ambasciatori di Tanzania, Lesotho, Pakistan, Mongolia, Danimarca, Etiopia e Finlandia, il Papa ha invitato tutti a “sfidare la globalizzazione dell’indifferenza, il far finta di niente davanti a tragiche situazioni di ingiustizia che domandano un’immediata risposta umanitaria”. In che modo si può rispondere a questo appello?
La Chiesa italiana, nella Lettera inviata alle comunità cristiane indica tre atteggiamenti che sono la proposta più seria per uscire dalla paura e per sfidare la globalizzazione dell’indifferenza: paura e indifferenza sono infatti le due facce della stessa medaglia perché dicono l’incapacità di incontrare l’altro, sia nel caso in cui mi volto dall’altra parte e non ho più la capacità di piangere per lui, sia nel caso in cui lo temo e dunque lo tengo fuori dall’orizzonte della mia vita.
La chiave invece è quella dell’incontro, della relazione, che implica necessariamente il fare i conti con la diversità, e l’interazione, che significa aprire processi di conoscenza per far sì che nella differenza si impari a recepire il positivo dell’altro e ad offrire qualcosa di proprio.

Nella Lettera inviata alle comunità cristiane, i vescovi della Commissione per le migrazioni chiedono di “avviare ‘processi educativi’ che vadano al di là dell’emergenza, verso l’edificazione di comunità accoglienti”. Quali dovrebbero essere i pilastri di tale azione?
Gli spazi più opportuni sono i luoghi educativi della comunità cristiana. Ad iniziare dalla parrocchia che può essere proprio questa realtà che avvia processi educativi. In molti casi, lo è già: sono tante quelle che fanno integrazione, che fanno sentire a casa loro persone provenienti da altri Paesi e spesso di altre fedi. Basti pensare alle esperienze di doposcuola, di attività nel tempo estivo, di spazi di interazione per i ragazzi.
Altri luoghi in cui avviare questi processi sono gli oratori che rappresentano un’altra esperienza positiva a livello giovanile, ma anche le scuole cattoliche e quegli spazi della scuola in cui la Chiesa è presente. Senza dimenticare lo sport che può fare molto in termini di integrazione.

Le diverse “Stella Maris” sparse lungo le nostre coste diventano spesso un punto di riferimento e un approdo per i marittimi, moltissimi dei quali stranieri…

Le associazioni “Stella Maris” intercettano una realtà spesso dimenticata che è quella dei marittimi, la maggior parte dei quali arriva da Paesi poveri. Si tratta davvero di una periferia esistenziale perché queste persone non sono tutelate, lavorano molto più di quanto è scritto sul loro contratto, sono sottopagate. Non vi è un riconoscimento della loro dignità.
Coloro che operano nelle “Stella Maris” possono andare sulle navi e incontrare i marittimi. A partire da un servizio di welfare, la Chiesa esprime così un’attenzione particolare al mondo degli stranieri, anche se questi non sono migranti così come siamo abituati a definirli, facendo riferimento a coloro che arrivano sulle nostre coste per sfuggire alla guerra e alla fame.

Vari Rapporti, tra cui quello di Medici per i Diritti Umani sulla condizione di vita e di lavoro degli stranieri nella piana di Gioia Tauro, hanno messo in luce uno scandalo che viene, di fatto, rimosso dal dibattito pubblico. Cosa bisogna fare perché il lavoro torni ad essere sinonimo di dignità e non di sfruttamento e morte?
È opportuno rilanciare una forte rivalorizzazione del lavoro. Negli anni siamo arrivati a considerare il lavoro come uno strumento per guadagnare e questo è un problema: se il fine è il profitto, chi guarda ad esso cerca di ridurre sempre più i costi e chi lavora cerca di guadagnare senza lavorare. Bisogna fare un lavoro a livello culturale per ribaltare la prospettiva, in modo che il lavoro sia non uno strumento, ma un fine, un modello di realizzazione della persona, un modo di stare al mondo, una visone dell’umanità. La dignità infatti va tutelata riconoscendo che il lavoro è qualcosa di fondamentale, un modello di vita sociale, un modo per riconoscere il valore di una persona. Occorre dunque riportare al centro il lavoro, inteso come modalità di impegnare se stessi nella costruzione del mondo.

Il Progetto Policoro forma i giovani ad una visione evangelica incarnata nel contesto in cui si vive, a servizio del bene comune. Questo può essere utile anche nell’ottica di una migliore integrazione nelle nostre comunità? In quali termini?
Il Progetto Policoro è un segno, non  risolve i problemi del lavoro. Di fronte a dati drammatici però questa esperienza conferma che il riferimento evangelico alla valorizzazione delle persone può essere la strada che aiuta un cambiamento nel rapporto tra società e lavoro. Nel Progetto Policoro i giovani si mettono a servizio di altri giovani, senza distinzioni, ma l’accostamento al mondo dei migranti è ancora iniziale. Bisogna fare un ulteriore passaggio per mettere questo tema al centro. La strada è comunque quella della formazione e come tale permetterà di aiutare i giovani, anche stranieri, a capire la loro esperienza come vocazione.