La forza di Elena
Ieri vittima della tratta, oggi mediatrice culturale nella comunità che l’ha accolta.
di Stefania Careddu
Ci sono ricordi che restano fissi, immobili, perfetti, come se il tempo non fosse mai trascorso. Sono passati venti anni, ma di quelle promesse, di quel viaggio, di quella violenza Elena ha dentro ogni dettaglio, ogni particolare. “Mi ricordo benissimo”, ripete mentre racconta la sua storia. “Andavo a scuola, ma dopo la morte di mio padre, mamma non aveva più la possibilità di pagare. Qualcuno mi prospettò l’ipotesi di andare via dalla Nigeria, di partire per l’Italia dove una signora mi avrebbe fatto lavorare in un ristorante. Mi sembrava una buona opportunità, accettai. Era novembre. Mi dissero però che non avrei potuto portare con me mia figlia che era nata a marzo. Rifiutai. A quel punto mi portarono in una casa lontano dalla mia dove mi chiesero di lasciare la bambina. Rifiutai di nuovo. Ottenni così di partire solo dopo aver consegnato mia figlia a mia madre”. Elena ripercorre parole, pezzi di discorsi, spostamenti ed emozioni. La partenza, il viaggio in aereo, l’arrivo a Bruxelles, poi Bologna, Ferrara, Catania, la casa con altre ragazze. La voce si incrina, il silenzio nasconde qualche lacrima. “Mi hanno tolto il passaporto e mi hanno dato i vestiti. Mi ricordo le sofferenze, mi hanno picchiata perché non accettavo quello che mi proponevano di fare. Sono scappata, ma non avevo nessuno, non capivo la lingua. Mi hanno ritrovato e messo di nuovo sulla strada”. Elena si ribella ancora e a questo punto “loro”, per paura che possa chiedere aiuto creando problemi al sistema, decidono di incastrarla. Arriva la polizia, prende Elena, la porta in Questura. Per lei si spalancano le porte del carcere. Poi l’incontro con suor Rosalia Caserta e le altre suore: “mi hanno aiutato tanto e mi hanno fatto uscire dal tunnel in cui ero finita”.
Oggi Elena è sposata, ha due bambini oltre alla figlia che l’ha raggiunta, e fa la mediatrice culturale nella comunità dove lei stessa è stata accolta. “Voglio che queste ragazze non si sentano sole e non provino le sofferenze che io ho vissuto: devo aiutarle perché so che quel viaggio è un incubo”, confida Elena che ha deciso di mettersi a disposizione degli altri. “Le ragazze che arrivano non hanno nessuno e io cerco di farle sentire a casa, di stare con loro, di fargli capire quanto sono fortunate ad essere state accolte in comunità dove hanno la possibilità di studiare”. È un lavoro complesso e delicato. Che richiede tempo, pazienza e amore. “A volte resto con loro la notte, la domenica, cucino delle pietanze africane anche se continuo a ripetere che, se vogliono integrarsi, devono imparare a mangiare il cibo italiano, che non devono approfittarsi delle persone che le ospitano, che non devono buttare quello che gli viene offerto, ma dire solo ‘grazie Italia’ per le opportunità che ci dà”. “Non è facile”, dice senza giri di parole Elena. Ma lei non si stanca di parlare, di ascoltare, di metterle in guardia dai pericoli e dalle facili illusioni. Lo ritiene “un dovere”, un’occasione per restituire il bene che ha ricevuto. Per questo non vuole che le vengano conteggiati gli straordinari. Le ragazze la chiamano “mamma” e questa gioia la ripaga di tutto l’impegno.