Poveri, come un dono

Non sono il terminale della carità della Chiesa né il punto di arrivo del nostro cammino di fede. Chi sono allora i poveri?

Un popolo di poveri

«Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che eseguite i suoi ordini;
cercate la giustizia, cercate l’umiltà, per trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore. Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele. Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta. Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti» (Sof 2,3.3,12-13).

Secondo la parola del profeta, quando Dio si cerca un popolo, dove va a trovarlo? In un piccolo resto, umile e povero, umiliato e bastonato. È un popolo non ricco, non grande, non prestigioso; un popolo destinato a non entrare mai nei libri di storia perché a nessuno verrebbe in mente di perdere il tempo per scrivere di esso.
Una cosa analoga si trova in Paolo, quando scrive ai Corinzi:

«Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti;  quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio. Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore» ( 1 Cor 1, 26-31).

Anche nella comunità di Corinto non ci sono intellettuali, potenti, gente aristocratica. Nessuno ha titolo accademici o nobiliari. Non ci sono personaggi ragguardevoli con posti di comando o di prestigio nella scala sociale. Ci sono, invece, persone poco importanti, che contano poco, addirittura spregevoli. Paolo non si scoraggia, né si vergogna. Anzi: ne trae motivo di serenità e di vanto nel Signore. Questa gente povera, che ha poca rilevanza sociale, che ha scarso peso economico e culturale, in Cristo ha, invece, già tutto. Hanno ricevuto dal Signore: non sentono il bisogno di ricever da altri. Anche questa è la strada scelta da Dio, non certo quella che sceglieremmo noi istintivamente. Guardiamo il Capo di questa comunità: è uno che è stato appeso ad una forca come un malfattore; che «non ha ritenuto un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma ha spogliato se stesso divenendo simile a noi, facendosi obbediente fino alla morte di croce» (cfr. Fil 2).

Il dono dei poveri

Bisognerebbe chiedersi se i poveri siano effettivamente parte della Chiesa, un elemento di inclusione, o se non siano piuttosto i destinatari di un servizio che appare successivo, secondo ed esterno, al costituirsi della Chiesa stessa. In quest’ultima prospettiva, più che di inclusione si tratterebbe di una relazione asimmetrica dove i poveri non sarebbero necessari all’identità della comunità cristiana, quanto l’occasione per una manifestazione delle sue opere buone. La tripartizione dell’azione pastorale – largamente affermatasi – nei tre settori dell’evangelizzazione, della liturgia e della carità in un certo senso rivela una logica tutt’altro che inclusiva, sia della Chiesa rispetto alla società, sia dei poveri rispetto alla Chiesa.
Proprio in forza di una differenziazione rispetto alla società civile dell’etsi Deus non daretur (“vivere come se Dio non esistesse”) l’agire ecclesiale si trovò di fronte all’esigenza di ricomporre in maniera più persuasiva un intero pastorale. Questo intento, di per sé lodevole e anche corretto, venne (e viene) realizzato in chiave remissiva, cedendo a quella spinta socio-culturale che delimita il campo della religione al privato e il senso pubblico della Chiesa a ruoli di supplenza socio assistenziale. Di fatto operando una ritirata pratica della cosiddetta pastorale ordinaria dai luoghi della vita quotidiana della gente, ritenuta profana, laica, secolare e dunque non appartenente a quanto vi è di più proprio nell’azione pastorale.
Secondo l’interpretazione restrittiva di quel trinomio trova auto-copertura e, i qualche modo, anche auto-giustificazione il ritrarsi circoscritto e intraecclesiale dell’azione messa in campo dalla Chiesa. Mentre i poveri edificano la Chiesa e le rendono manifesto il mistero di Cristo e la sua grazia.  Insegna Evangelii gaudium, a proposito del quarto principio sociale esposto dal Papa e denominato “il tutto é superiore alla parte”:

 «sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le proprie potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto. É l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; é la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti.

A noi cristiani questo principio parla anche della totalità o integrità del Vangelo che la chiesa ci trasmette e ci invita a predicare. La sua ricchezza piena incorpora gli accademici e gli operai, gli imprenditori e gli artisti, tutti» (nn. 236-237, passim). Dunque, riconoscere i poveri e vivere in comunione con loro, relazionarci nei termini di una ri-comprensione di noi stessi alla luce della nostra comunione con loro, significherà innanzitutto lasciarci evangelizzare da loro. Lasciare che operino in noi quella ri-comprensione di noi stessi che la loro richiesta di riconoscimento opererà in noi.
È proprio nelle persone povere, deboli, umiliate, che possiamo riconoscere più chiaramente questa forza di novità e di carità che viene dal Signore. Lui che si è fatto piccolo e debole continua oggi a farsi incontrare nelle persone piccole e deboli: dunque in quanti per svariati motivi vivono ai margini. Questi piccoli sono i custodi della forza misteriosa di Cristo che abita nei deboli e li rende immagine sua (cfr. Mt 25,40: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»).
Per ritrovare una comunione con Dio e una novità di vita, occorre che ci poniamo accanto a loro, che ci lasciamo interpellare dal riconoscimento che essi avanzano nei nostri confronti, dentro al quale possiamo discernere la presenza e le chiamate di Cristo stesso.

Una comunione con i poveri

I poveri non sono, perciò, unicamente il terminale della carità della Chiesa, o il punto di arrivo del nostro cammino di fede, quasi il luogo nel quale mettiamo in pratica tutto ciò che in precedenza abbiamo ascoltato, capito e celebrato del Vangelo. Non si diventa prima cristiani per poi arrivare, per interna coerenza e senso del dovere, a mettersi a servizio dei poveri. Piuttosto è grazie a loro che si diventa cristiani: che si rielabora la nostra identità, grazie al volto di Cristo che essi manifestano e che non potremo conoscere altrimenti.
Parlando di Raphael e Philippe, le prime due persone con un handicap mentale con le quali aveva vissuto, il fondatore dell’Arca – Jean Vanier – scrive:

«Certo, essi desideravano che io facessi determinate cose per loro, ma più profondamente essi desideravano essere amati in verità d’un amore che riconosce la loro bellezza e la luce che brilla in loro, un amore che gli rivela il loro valore e la loro importanza dentro l’universo. Il loro grido per la comunione ha suscitato e fatto sgorgare nel mio cuore il mio grido per la comunione. M’hanno fatto scoprire dentro di me un pozzo, una fontana di vita, una sorgente d’acqua viva»
(J. Vanier, La Communauté, lieu du pardon et de la fête, Fleurus/Bellarmin, Paris-Montréal 1988, 99).

I poveri, le persone lacerate da domande di fronte alle quali restiamo muti e spaventati, ci chiedono l’essenziale: trovare un amore che dia senso a quello che stanno vivendo, che li restituisca alla vita. Comprendiamo subito che un amore così non è nelle nostre disponibilità, anche noi lo stiamo cercando. Proprio chi è povero ci costringe a non accontentarci, a non rimuovere la sua presenza e le sue domande (teoriche e pratiche), e a volgerci con lui a cercare il volto di Dio, il solo capace di risponderci, il solo che illumina la nostra vita. Non fuggire, stare, condividere questa povertà e questa debolezza che a poco a poco ci fanno entrare sempre più in profondità nel mistero di Dio, fa sgorgare la vita anche attraverso le nostre ferite.