Povertà e migrazioni, questione di fede
Occorre far entrare a pieno titolo il tema dei poveri e la questione migratoria nella pastorale ordinaria delle nostre diocesi, perché hanno a che fare con l’identità cristiana di ogni credente.
Lungi da ogni retorica, papa Francesco sogna una Chiesa povera al servizio dei poveri. Si tratta, in effetti, della chiave ermeneutica del suo pontificato per comprendere fino in fondo la missione, alla luce del Vangelo. Ma cosa c’è dietro questo augurio/auspicio? La spiegazione la troviamo nella meditazione fatta a braccio da Papa Francesco, durante la veglia di Pentecoste il 18 maggio del 2013, quando disse: «La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale”. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo». L’amore cristiano, dunque, per Papa Bergoglio, non è un’idea astratta ma diventa concreta nel servizio ai poveri, che sono «la carne di Cristo». In effetti, ciò che disturba maggiormente i detrattori di Papa Francesco è l’esaltazione della povertà come «porta del paradiso» e dei poveri come «protagonisti della missione», in contrasto, secondo loro, con una sistematica denuncia della miseria come male estremo, da parte di Francesco. L’indicazione bergogliana dei cosiddetti “rimedi” contro il sottosviluppo e ogni genere di ingiustizia viene interpretata dai tradizionalisti più reazionari come una riproposizione di vecchi schemi terzomondisti. Nelle argomentazioni dei fautori della Chiesa costantiniana è evidente l’incapacità, per non dire l’impossibilità, di coniugare le istanze dello spirito e della fede con i bisogni esistenziali di chi deve lottare per vivere o addirittura sopravvivere. Invece, l’ “eco-teologia” dell’enciclica Laudato Si’, fondata sul valore impellente della salvaguardia della «Casa comune», è l’espressione di una radicale svolta in favore della cristianità, per la causa del Regno. La povertà, allora, non è la “mistica della miseria”, sì quasi fosse una sorta d’archetipo della vita umana o rifiuto palese dello sviluppo, quanto piuttosto è denuncia del sopruso, rigetto delle angherie dei nababbi, quelle che precludono il progresso e dunque condivisione.
È dunque evidente che i poveri di cui parla il papa non sono una categoria astratta, ma persone concrete con volti e nomi: uomini e donne senza terra, senza casa, senza lavoro, senza pane; migranti clandestini e rifugiati; persone in preda all’abbandono e alla solitudine. Tutta gente che porta con sé storie inimmaginabili di sofferenza ed esclusione sociale.
La Chiesa, nei secoli, ha sempre fatto proprio il principio evangelico della difesa dei deboli, dei poveri, delle categorie svantaggiate, a partire da quelle bibliche dell’orfano, della vedova, dello straniero, in particolare dell’immigrato. Ecco perché è importante aiutare le nostre comunità, ma anche la società civile in senso lato, a comprendere il Magistero della Chiesa sull’effettiva destinazione universale dei beni del nostro pianeta. A questo proposito è davvero illuminante l’interpretazione offerta dal Concilio Vaticano II, laddove leggiamo: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati devono equamente essere partecipati a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità» (GS 69). Questo testo enuncia un fondamento di natura teologica: la fede nel Dio che crea il mondo e lo affida all’uomo perché vi trovi tutto ciò di cui ha bisogno per vivere dignitosamente. Da questo indirizzo divino, così chiaro ed esplicito, deriva un’esigenza etica concreta: i beni della creazione sono, in linea di diritto, destinati a tutti, pertanto essi devono «essere partecipati a tutti» in modo equo. Ogni volta che così non è, si lede la giustizia e quindi la carità.
È importante osservare che, per il Concilio, i beni della creazione sono destinati non solo a «tutti gli uomini», ma anche a «tutti i popoli»: un’aggiunta originale, assolutamente da non sottovalutare, che conferisce al principio della destinazione universale dei beni una dimensione per certi versi politica. Illuminante, a questo proposito è il magistero di Paolo VI nella Populorum progressio, in cui precisa che «tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati» (PP 22) alla destinazione universale dei beni, mostrando a chiare lettere che questo principio si radica nella tradizione più antica, citando, a sostegno, i Padri della Chiesa e i grandi teologi, specialmente sant’Ambrogio: «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l’uso di tutti, è ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi» (PP 23).
San Giovanni Paolo II nell’enciclica Laborem exercens, è altrettanto esplicito: «La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto [di proprietà] come un qualcosa di assoluto e intoccabile. Al contrario, essa lo ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti a usare i beni dell’intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto all’uso comune, alla destinazione universale dei beni» (LE, 14). Nella Sollicitudo Rei Socialis egli riprese addirittura l’immagine di una «ipoteca sociale» (SRS 42) che grava sulla proprietà privata, usata per la prima volta nel 1979 in un discorso in Messico.
Una cosa è certa: nel contesto della globalizzazione, le violazioni del principio della destinazione universale dei beni sono oggi più che mai evidenti, così come più viva è la coscienza dello scandalo della disuguaglianza tra gli uomini e tra i popoli. Nella sua enciclica Laudato Si’, sulla «Casa comune» papa Francesco spiega questo molto bene: «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante iniquità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate, private dei diritti umani fondamentali, il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica e ineludibile conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri. Questa opzione richiede di trarre le conseguenze della destinazione comune dei beni della terra, ma, come ho cercato di mostrare nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (186-201), esige di contemplare prima di tutto l’immensa dignità del povero alla luce delle più profonde convinzioni di fede. Basta osservare la realtà per comprendere che oggi questa opzione è un’esigenza etica fondamentale per l’effettiva realizzazione del bene comune» (LS 158).
La posta in gioco è alta perché mai come oggi occorre far entrare a pieno titolo il tema dei poveri e conseguentemente la questione migratoria, nella pastorale ordinaria delle nostre diocesi, trattandosi di questioni che hanno a che fare con l’identità cristiana di ogni credente.