Un diritto di tutti

Un diritto di tutti

Il binomio salute-migranti rischia di alimentare paure e muri. Bisogna lavorare per rimettere la persona, specialmente se sofferente, al centro. Sempre. Intervista a don Francesco Soddu, direttore della Caritas Italiana.

“Come tutti gli stereotipi, anche questo su migranti e salute rischia di alimentare muri e paure”. A lanciare l’allarme è don Francesco Soddu, direttore della Caritas Italiana, sottolineando che è proprio in questo contesto che “si inserisce il ruolo dalla Chiesa che opera non solo per accogliere e integrare, ma per mediare tra le numerose istanze e paure che attraversano la nostra società davanti alla sfida dell’immigrazione”.

Scabbia, disidratazione, ustioni, ferite da armi da fuoco e intossicazioni, ma soprattutto depressione e disordini post-traumatici connessi a torture e violenze subite o nel Paese di origine o nel percorso migratorio. La Relazione sulle attività svolte nel 2017 dagli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera del Ministero della Salute non lascia dubbi sulle reali condizioni in cui versano i profughi…
A partire dalla cosiddetta “Emergenza Nord Africa” nel 2011, si è passati da una migrazione ordinaria di tipo economico, a un’altra essenzialmente di profughi, che presentano percorsi migratori prolungati e spesso estremamente duri. Chi opera nel settore conferma di aver visto crescere il numero di migranti con storie drammatiche e spesso di psicotraumatologia.
Così come non è infrequente il fatto che il trauma del viaggio, delle torture o delle violenze anche sessuali subite inneschi o eliciti disturbi mentali (d’ansia, depressivi, postraumatici), che non trovano adeguate strategie d’accompagnamento nel nostro Paese.

“I migranti portano malattie” è una frase che spesso sentiamo dire. Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, aveva addirittura parlato del diffondersi della tubercolosi a seguito dell’ondata migratoria, smentito subito dai dati del Ministero della Salute. C’è il rischio che anche la salute diventi un pretesto per alzare muri e non accogliere?
Il rischio di importazione di malattie infettive esotiche paventato da un pregiudizio diffuso, si è mostrato assolutamente non significativo. Gli immigrati hanno spesso alle spalle un progetto migratorio familiare che affida al componente più giovane e sano della famiglia il ruolo di testa di ponte verso l’Europa e non solo, cioè di colui che ha energie e salute sufficienti per resistere alla traversata e ai suoi pericoli. É il cosiddetto “effetto migrante sano”, che tuttavia negli ultimissimi anni conosce un ridimensionamento a causa dei tanti fattori che inducono partenze d’impulso e meno preparate (guerre civili, cambiamenti climatici e così via).
Le complessive condizioni di vita cui l’immigrato dovrà conformarsi potranno poi essere capaci di erodere e dilapidare, in tempi più o meno brevi, questo patrimonio. Certo, come tutti gli stereotipi, anche questo su migranti e salute rischia di alimentare muri e paure. È  in questo contesto che si inserisce il ruolo dalla Chiesa Italiana che opera non solo per accogliere e integrare ma per mediare tra le numerose istanze e paure che attraversano la nostra società davanti alla sfida dell’immigrazione.

Quella della salute, fisica ma anche mentale, è una questione trasversale, che non conosce età né confini. Come fare perché la salute sia un diritto di tutti e non solo di alcuni?
Nel nostro Paese si rileva la preoccupante crescita della povertà sanitaria e a livello mondiale la situazione nel Sud del mondo conferma in modo drammatico l’intreccio tra povertà e malattia. Nel Sud del mondo si muore anche di malaria e di parto, così come si muore di fame per mancanza di accesso al cibo. Da qui la necessità di un approccio che parta dalla persona nel suo insieme più che dal suo bisogno, dal malato, e più in generale dalla persona sofferente, prima ancora che dalla malattia. Ricordando sempre, come sottolinea Papa Francesco “che ogni malato è e rimane sempre un essere umano, e come tale va trattato. Gli infermi, come i portatori di disabilità anche gravissime, hanno la loro inalienabile dignità e la loro missione nella vita e non diventano mai dei meri oggetti, anche se a volte possono sembrare solo passivi, ma in realtà non è mai così”.

Nei giorni scorsi, i vescovi europei hanno ribadito che “la solidarietà è la strada maestra irrinunciabile per affrontare i problemi nazionali, internazionali e mondiali”. Oltre che le istituzioni, cosa possono fare le comunità cristiane?
Oggi le nostre comunità sono realtà complesse e in continuo mutamento. “L’io e la comunità – ci ricorda il Papa – non sono concorrenti tra loro, ma l’io può maturare solo in presenza di rapporti interpersonali autentici e la comunità è generatrice quando lo sono tutti e singolarmente i suoi componenti.”. Cogliendo i segni dei tempi, dobbiamo dunque avere la capacità di non lasciarci sfuggire tutte le opportunità di sviluppo e crescita. A partire dalla scelta delle relazioni, che impegna attraverso luoghi, strumenti, storie, occasioni di incontro, di ascolto, accoglienza e relazioni con le persone, soprattutto con quelle in situazione di precarietà, fragilità e povertà. Va sottolineata l’urgenza di immaginare nuove strade e modalità di lavoro per coinvolgere e responsabilizzare, per opporre alla società dello “scarto” un nuovo modello economico che non metta da parte gli esclusi; per costruire un ecosistema favorevole all’uomo, verso quella “ecologia integrale” indicata da Papa Francesco nella Laudato Si’, in cui il valore della solidarietà unito a quello dell’assunzione di responsabilità (personale e collettiva) possono produrre risultati concreti.

La salute è uno degli ambiti di azione del Servizio per gli interventi caritativi a favore dei Paesi del Terzo Mondo e della Campagna “Liberi di partire, liberi di restare”. Cosa significa questa scelta di campo della Chiesa italiana?
La salute è un diritto universale che deve essere sempre e comunque tutelato. Dunque il nostro stile di azione sul territorio, che si pone l’obiettivo di richiamare la comunità a prendersi cura degli ultimi, può diventare esempio e stimolo nella progettazione di nuove politiche in ambito socio sanitario, anche nei confronti dei migranti. È perciò nostro dovere lavorare affinché l’attenzione alla persona e l’ascolto della sua storia siano sempre il cuore della modalità di relazione con l’altro, perché, in un’ottica di ancor più ampio respiro, sia la Chiesa nella sua dimensione più comunitaria ad accogliere il malato in rete con enti e servizi di diverso tipo. Una Chiesa senza recinti e paure, che si occupa delle cose di Dio, ma sa che ciò che sta a cuore a Dio sono le cose degli uomini.