Sulla pelle e nell’anima

Sulla pelle e nell’anima

Le persone che riescono ad arrivare salve sulle nostre coste portano con sé traumi e ferite indelebili. Intervista a Barbara Massimilla, psichiatra e psicologa, fondatrice e presidente dell’Associazione DUN-Onlus.  

Traumi fisici e psicologici, violenze, abusi e soprusi: le persone che arrivano sulle nostre coste, soprattutto le donne, portano sul corpo e nell’anima ferite profonde. Occorre aiutarli a ricostruire la loro “casa interiore”, spiega Barbara Massimilla, psichiatra e psicologa, fondatrice e presidente dell’Associazione DUN-Onlus che offre ai migranti interventi terapeutici per superare il disagio psicologico e psichiatrico connesso ai traumi subiti nel viaggio e nel processo di integrazione.

Il tema della violenza e degli abusi purtroppo non conosce confini e unisce le donne, di qualunque Paese e colore, in un unico e forte grido di aiuto. La vostra associazione si chiama Dun, che in lingua armena significa “casa”. Come si fa a ricostruire la casa interiore delle donne migranti che hanno subito violenza e portano con sé ferite profonde?
Mediante un percorso di accompagnamento condotto da professioniste psicoanaliste, si ascoltano le donne nella narrazione della loro storia d’origine e dei loro percorsi traumatici per poter costruire una nuova relazione con la propria identità femminile e riappropriarsi di un progetto di vita. I percorsi terapeutici e creativi sono personalizzati in rapporto alla storia di ogni donna e ai contenuti psichici che iniziano a emergere nella relazione analitica individuale. Viene offerto loro la possibilità di percorsi di psicoterapia individuale, di gruppo, e laboratori artistici. Attraverso un lento e graduale “processo empatico di condivisione e ricostruzione, compiuto dalla coppia terapeuta-paziente e nello spazio dei laboratori espressivi sarà possibile riemergere da quel naufragio identitario”. Il nostro impegno è far riassaporare loro il gusto per l’esistenza nel prendersi cura della propria interiorità, e ambire non solo a sopravvivere ma a desiderare e realizzare una vita piena e ricca di ogni potenzialità possibile, partendo ciascuna da se stessa, oltre quel passato di violazione e di dolore.

Quando si parla di migranti, spesso si tende ad omologare e massificare. Chi sono le donne che incontrate, quali sono le loro storie, cosa raccontano?
Le donne di cui ci prendiamo cura in DUN sono persone che presentano delle fragilità psicologiche reattive al trauma migratorio, spesso sfruttate e offese anche nel loro paese d’origine, se accolte veramente, ascoltate, riconosciute e non giudicate riescono a riattivare le loro risorse. Ognuna ha un volto e una storia, noi operatori incontrandole valorizziamo la loro unicità e il loro spessore umano.
Sono spesso donne in attesa del rilascio di documenti di riconoscimento e di permesso di soggiorno che hanno anche per questo bisogno di supporto in diverse fasi del loro percorso di integrazione per poter recuperare la propria identità sociale che per questioni burocratiche politiche è lasciata sospesa in uno stato di invisibilità, senza diritti né voce.
DUN intende dare una risposta forte al dramma contemporaneo del femminile lungo il viaggio migratorio dal paese d’origine al paese che dovrebbe accogliere. Ci rivolgiamo con il nostro sostegno in particolare alle donne vittime di tratta e di violenza. Le loro narrazioni sono colme di drammaticità, di dolore, di rinunce enormi, di distacchi drammatici, di violenze reiterate lungo tutto il percorso migratorio.
Spesso sono donne costrette a lasciare, con uno strappo, i loro bambini nel paese d’origine, oppure, a causa delle violenze ricevute durante il percorso, costrette a fare i conti con una maternità subita, che le distanzia dalla possibilità di poter fare un sereno e naturale investimento sul nuovo nato e sulla inattesa condizione di genitore, che anzi le rimanda incessantemente alla memoria del trauma. Spesso giovanissime, ancora confuse sulla loro identità, sono proiettate in una condizione di assoluta solitudine e precarietà, responsabili di un’altra vita che non hanno scelto di mettere al mondo. Per le più giovani la violenza non si conclude con il finire del viaggio, spesso le perseguita fino al paese d’accoglienza. Con una sorta di contratto al sacrificio, queste donne restano vittime di carnefici che continuano a controllarle indicando loro la strada dello sfruttamento. Le più coraggiose provano a sottrarsi a questa legge della violenza scappando e rifugiandosi nei centri d’accoglienza.
È per esempio il caso di una giovane donna di origini albanesi portata in Italia da uno sfruttatore al quale la famiglia stessa l’aveva consegnata insieme ai suoi bambini. La speranza dei suoi genitori era ricavare un profitto per migliorare la propria condizione. L’uomo, del loro stesso paese d’origine, si era presentato come benestante per la fortuna fatta in Italia. In realtà presto emerge per la donna una realtà ben diversa, lui era un poco di buono, viveva di furti negli appartamenti, di attività illecite legate alla pedofilia e alla prostituzione. Per convincere la donna a prostituirsi la fa vivere insieme ai suoi figli nell’indigenza più totale. La donna, senza il sostegno della sua famiglia d’origine, con un grande coraggio rinforzato dall’amore e dalla protezione verso i suoi figli, si sottrae alla tratta e inizia il suo percorso istituzionale di donna vittima di violenza. Il nostro supporto psicologico per lei e i suoi bambini, la sta aiutando non solo ad elaborare lo strappo dalla famiglia d’origine e quindi la sua solitudine, ma anche le ferite profonde e le paure lasciate dalla violenza subita e dal difficile percorso d’integrazione.

In cosa consiste il progetto “TerraMadreTerra” finanziato dalla Campagna “Liberi di partire, liberi di restare” e qual è lo stato dell’arte?
Il progetto nel suo complesso prevede due percorsi di sostegno:

  • uno spazio dedicato alle donne vittime di tratta e di abusi attraverso gruppi psico-educativi, incontri individuali e laboratori di espressione creativa. Per la loro particolare vulnerabilità psicologica, legata all’inganno, allo sfruttamento, alla violenza corporea, i tempi per creare una relazione di fiducia che permetta di parlare della propria di storia, di aspetti di sè, delle proprie paure, dei propri desideri e sogni, sono lunghi. Spesso per la loro giovane età e per la loro fragilità queste donne non hanno conoscenza dei loro diritti ed è fondamentale inizialmente assumere un ruolo psico-educativo e creativo. Importante allora rispettare e ascoltare i loro silenzi legati alla paura, alla vergogna, alla difficoltà di entrare in contatto con quelle che sono sofferenze anestetizzate, bloccate, per permettere di ritrovare il proprio senso identitario e di essere umano nel collettivo. Al momento ci troviamo nella fase dove la terapia individuale e di gruppo sta offrendo i suoi frutti perché abbiamo costruito nel nostro dispositivo terapeutico una relazione di fiducia e le donne riescono ad aprirsi, a dare voce alla loro sofferenza e alla speranza, a raccontarci i loro sogni.
  • Un gruppo di sostegno alla relazione madre/bambino, rivolto a quelle donne che sono state oggetto di tratta e di violenza e che sono diventate madri. Uno sguardo particolare è rivolto allo stile educativo di ogni cultura per valorizzarlo e sostenerlo. Per queste donne il recupero della propria storia d’origine come figlie permetterà loro di ricucire lo strappo identitario creato dalla lacerazione traumatica e recuperare il ricordo di come le loro mamme le hanno amate e cresciute. Solo attraverso il recupero del modello originario di cura sarà possibile per loro rivolgere un nuovo sguardo verso i loro bambini e poter fare avere verso di loro un buon investimento affettivo. Nel caso fossero state oggetto di abuso nella propria famiglia d’origine, condizione non rara, come terapeuti dobbiamo sopperire quella mancanza con un lavoro di sostegno che tende a proporre una vera e propria opera di “filiazione” all’interno della cura. Stiamo al momento incontrando le madri e i bambini in una fase iniziale di conoscenza e osservazione per passare a breve a un intervento più mirato alla genitorialità, come ci siamo proposte nel progetto “TerraMadreTerra”.

Un’attenzione particolare nel progetto è rivolta ai bambini: cosa significa prendersi cura di loro?
È importante dedicare ai bambini un’attenzione particolare, non solo perché i giovani rientrano tra le fasce dei più fragili ed esposti ai disagi del difficile adattamento e d’integrazione, ma anche perché bambini e adolescenti portano insita nella loro età una linea d’orizzonte più ampia, che se riconosciuta e valorizzata allarga anche le prospettive d’inserimento di tutta la famiglia. Infatti, la linea dell’orizzonte per le donne vittime di violenza e di tratta è stata interrotta dal trauma, non è più visibile il loro futuro e bisogna aiutarle a recuperarla sostenendo il loro ruolo di madri e il desiderio di esserlo.
Poter puntare sui minori, attraverso un lavoro di sostegno psicologico e di educazione interculturale, significa anche fondare basi più solide per modificare il modo con cui la nostra cultura si apre e accoglie nuove culture, sostenuta da una visione di arricchimento per tutti che promuove feconde contaminazioni. Tutto questo, inoltre, porta con sé un obbiettivo di prevenzione, di riduzione dei rischi di disagio sociale, di emarginazione, di illegalità e devianza. A tale scopo intendiamo portare avanti un progetto dove ci si prende cura della relazione madre/figlio, precocemente interrotta dal trauma. Una buona relazione madre/figlio è alla base del benessere di ogni individuo e fonda l’identità di entrambi su basi sicure e indistruttibili.