Un nuovo concetto di carità
È tempo di “rimettere al centro le relazioni”. Intervista a don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana.
In un momento storico complesso, in cui c’è il rischio di nuove barbarie a livello internazionale ma anche nelle nostre città, per don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, è urgente “aprirsi ad un concetto nuovo di carità”.
Nel Messaggio per la Quaresima il Papa mette in guardia da falsi profeti e ciarlatani. Spesso il tema dei migranti è oggetto di strumentalizzazioni che alimentano paura e odio. Da dove partire per invertire la tendenza?
Questo è un momento storico che richiede a tutti di ripensare e rimettere al centro le relazioni tra le persone. C’è dunque una cultura dell’accoglienza da cambiare e lo dovrà fare la Chiesa perché è guidata dal Vangelo, ma anche chi fa politica e guida la Nazione, attraverso leggi che tengano conto del bene comune e riescano a coniugare responsabilità e accoglienza. Guardando la realtà, ragionando con calma, senza trincerarsi dietro la paura. Certo è che accoglienza e condivisione non sono valori che si possono imporre. Se, partendo proprio dalla crisi, riusciamo a generare alleanze, a coagulare energie, ad aggregare soggetti diversi su proposte che sostengano i valori comuni della reciprocità e della fraternità, dell’equità e della democrazia, allora saremo anche in grado di ristabilire alcuni primati che, oggi, appaiono invertiti rispetto al loro ordine: il Vangelo sulla legge; l’uomo sulle regole dei codici; il servizio sul potere. Al punto n.4 del Messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 2018 Papa Francesco richiama la necessità di “una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. In particolare sottolinea che integrare “significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio»”.
I racconti, i volti, le cicatrici (e non di rado la morte) di molti migranti evocano la sofferenza e la Passione di Gesù. Eppure – come dimostrano i recenti fatti di cronaca – da più parti, a volte anche da chi si definisce cristiano, si hanno reazioni razziste, xenofobe. Cosa può fare la Chiesa?
La Chiesa prosegue nell’impegno diffuso nell’accoglienza, anche attraverso sperimentazioni innovative come l’iniziativa “Liberi di partire, liberi di restare”, o il progetto “Protetto, Rifugiato a casa mia” che ha permesso alla comunità cristiana di mettersi in gioco nell’accoglienza dei profughi ospitandoli in famiglia, nelle parrocchie e anche negli istituti religiosi in maniera totalmente gratuita. Inoltre per orientarsi nel complesso mondo dell’immigrazione (tra numeri, dati e trend) la Chiesa Italiana da diversi decenni promuove strumenti di informazione multilivello al fine di supportare le proprie comunità e l’opinione pubblica nella difficile opera di discernimento. Ma questo non basta. Certamente è vero che si può e si deve fare di più. Non possiamo nasconderci la difficoltà, sperimentata ogni giorno, di incidere concretamente nella mentalità della comunità ecclesiale e civile. Permane, in larghe fasce di popolazione anche delle nostre comunità parrocchiali, una distanza tra le molteplici azioni di accoglienza messe in atto in questi anni e la disponibilità all’accoglienza, alla relazione e all’integrazione degli immigrati nelle ordinarie situazioni della vita quali il condominio, il lavoro, la scuola, le amicizie, il tempo libero. È come se tutta la ricchezza delle molteplici opere ed esperienze donate in questi anni fosse una “luce sotto il moggio”. Non illumina e non scalda, né le menti, né i cuori, né le prassi, né le scelte di vita e di politica dei nostri territori. Per contrastare il rischio di nuove barbarie, nelle relazioni fra i popoli, nei rapporti fra fedi diverse, nel venir meno di un’idea comune sulla dignità umana anche all’interno delle nostre città, possiamo dunque e dobbiamo riaffermare il primato della persona e dello sviluppo integrale dell’uomo, di ogni uomo, cercando – con caparbietà e nonostante tutto – spazi per costruire pace, agire e credere in un mondo riconciliato, dove le differenze siano linfa nuova e non occasioni di sospetto e di conflitto.
Cosa bisogna fare nel concreto perché non si spenga la carità?
La nostra carità si raffredda e l’amore viene soffocato da ogni tipo di avidità, ad iniziare da quella del denaro; prosegue con il rifiuto di Dio e si tramuta in avversione verso coloro che minacciano le nostre certezze. Sia in termini di azioni concrete, sia, ancor di più, in termini di assenza di una cultura dell’accoglienza, della condivisione e della fraternità. Proprio per il fatto che, come evidenzia il Papa “l’amore si raffredda anche nelle nostre comunità” attraverso tutte quelle disattenzioni già rimarcate nella EG (nn. 76-109), occorre moltiplicare occasioni di riflessione e confronto sui territori affinché nelle comunità diocesane, anche attraverso l’impegno nell’iniziativa “Liberi di partire, liberi di restare”, cresca la consapevolezza delle storie di chi fugge, si sperimentino percorsi di accoglienza, tutela, promozione e integrazione dei migranti che arrivano tra noi, e non si dimentichi il diritto di ogni persona a vivere nella propria terra. Continuando a lavorare insieme, in spirito di comunione e servizio, per moltiplicare le opportunità di approfondire quanto le opere di carità, raccomandate soprattutto in questo periodo, possano diventare lo stile di vita del cristiano. Siamo consapevoli che si tratta di una grande sfida, di una svolta prima di tutto culturale nella comprensione dei mali del mondo e delle sue attese di giustizia e di carità. Una sfida che chiede innanzitutto di riqualificare le relazioni in termini di alterità, dono e responsabilità. Un impegno che deve partire dal volto degli impoveriti e da attenzioni concrete nei loro confronti. Non basta però soccorrere ogni essere umano ferito sulle strade di Gerico della vita, non basta dar da mangiare agli affamati, ma bisogna aprirsi ad un concetto di carità più vasto che si preoccupi, nel contempo, di cambiare l’assetto della società.
Bambini non ancora nati, anziani e stranieri: quelli che il papa definisce una “minaccia alle nostre certezze” sono il cuore della Campagna Cei “Liberi di partire liberi di restare”….
Nelle nostre ben sorvegliate cittadelle di privilegio, troppo spesso siamo pronti ad attaccare proprio i più piccoli e meno tutelati, tra i quali non possono non essere annoverate tutte quelle persone che sono l’oggetto della nostra attenzione nell’iniziativa della Chiesa italiana “Liberi di partire liberi di restare” sui temi dello sviluppo e delle migrazioni. In particolare sostiene interventi negli ambiti dell’educazione, della sanità, della promozione di opportunità lavorative, dell’accompagnamento di rientri volontari. I destinatari privilegiati sono i migranti minorenni e le loro famiglie, nei dieci paesi di maggiore provenienza dei minori stessi, con un’attenzione prioritaria rivolta all’Africa: un impegno fattivo, per dimostrare che politiche di cooperazione volte a uno sviluppo integrale di persone, comunità e territori sono realmente possibili. Occorre però maggiore responsabilità – come indicato proprio da papa Francesco nel suo discorso alla Fao – per garantire il “diritto di ogni essere umano a nutrirsi a misura dei propri bisogni, partecipando altresì alle decisioni che lo riguardano e alla realizzazione delle proprie aspirazioni, senza doversi separare dai propri cari”. Tutti gli uomini devono cioè essere liberi: di rimanere nella propria terra, o di andarsene migrando. In ogni caso il loro percorso va conosciuto, accompagnato, accolto. Bisogna invertire la rotta e si rende necessario un cambiamento nel modello di sviluppo. “È troppo – chiede il Papa – pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia?” A che serve ad esempio ripetere che i conflitti causano fame e malnutrizione, “se non ci si adopera efficacemente per la pace e il disarmo?”
L’elemosina è una pratica spesso disattenta. È possibile renderla “uno stile di vita”, come auspica il Papa?
Il Papa ci ricorda che la Chiesa, “assieme alla medicina, a volte amara, della verità” , – che ci sostiene nell’impegnativo compito della denuncia, ma anche della proposta – per evitare che il nostro cuore si raffreddi, ci offre “il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno”. Sempre uniti alla carità.
Elemosina deriva dal greco e significa “misericordia”. “Come la misericordia – ci ha ricordato papa Francesco – ha mille strade, mille modalità, così l’elemosina si esprime in tanti modi, per alleviare il disagio di quanti sono nel bisogno”. Quindi l’elemosina è sollecitata da un bisogno o da una sofferenza, ma significa fare carità nel senso pieno del termine. Hanno scritto i Vescovi italiani: «La carità è molto più impegnativa di una beneficenza occasionale: la prima coinvolge e crea un legame, la seconda si accontenta di un gesto». Ecco perché è fondamentale l’impegno pedagogico per educare singoli e comunità alla carità, per diffondere comportamenti improntati al dono di sé, al coinvolgimento verso il vicino di casa come sui grandi problemi del mondo: guerre, ingiustizie, sottosviluppo. Infatti il servizio al singolo uomo sofferente esige, per essere veramente efficace, una prospettiva promozionale e non meramente assistenziale. Deve poi avere a cuore la comunità, perché cresca, denunci e si adoperi anche nei confronti delle istituzioni affinché siano rimossi i meccanismi che provocano esclusione. È questo lo spazio dove più concretamente la carità si salda con la giustizia.