Legno d’ebano

La storia si ripete: la tratta degli schiavi non è mai finita.

Oggi si parla e si scrive con grande disinvoltura sul fenomeno dello “Human Trafficking”, come se si trattasse di un qualcosa d’inedito rispetto al passato. Eppure, quanto avviene oggi sulle coste libiche, non è altro che la pagina più recente della cosiddetta tratta degli schiavi, una delle peggiori nefandezze della Storia umana.
Gli studiosi sanno bene che il fenomeno, nel suo complesso, ha interessato un numero variegato di popoli nell’antichità. Basti pensare alla condizione di degrado del popolo d’Israele in terra egiziana ai tempi di Mosè. Sta di fatto che l’Africa è in assoluto il continente che, più di altri, ha pagato un caro prezzo. Infatti, il trasferimento forzato di milioni d’africani dalle coste del Golfo di Guinea, attraverso l’Oceano Atlantico, fino alle colonie europee nelle Americhe, fu preceduto, accompagnato e per certi versi, addirittura superato nel tempo da un’altra tratta, meno conosciuta, ma certamente altrettanto feroce. Si tratta della rotta attraverso il deserto del Sahara e le regioni dell’Africa Orientale, verso il Maghreb, l’Egitto, il Medio Oriente e l’Oceano Indiano. Testimonianze storiche indicano che già nel secondo millennio avanti Cristo, i faraoni ricevevano dalla Nubia (regione settentrionale del moderno Sudan) gruppi di prigionieri afro che venivano ridotti in schiavitù. Per non parlare dell’impero nubiano di Meroe che si sviluppò dal IV secolo avanti Cristo al III secolo dopo Cristo lungo il corso del fiume Nilo. A questo riguardo sono interessantissime le testimonianze di due grandi autori latini, Seneca e Plinio il Vecchio. Il primo udì dalla viva voce di due pretoriani il racconto del loro tentativo di scoperta delle sorgenti del Nilo (“caput Nili”). Erano partiti per ordine dell’imperatore Nerone (54-68 d.C.). Il testo di Seneca, un capitolo delle sue “Naturales Quaestiones”, fu poi ripreso da Plinio il vecchio (79 d.C.) nel suo “Naturalis Historia”. (VI, 29). Dopo aver ricevuto aiuti dal re di Etiopia (cioè di Meroe, circa 200 chilometri a nord di Khartoum) e commendatizie per i re che dovevano incontrare all’interno (l’impero meroitico era feudale), la missione esplorativa si spinse a meridione e, secondo lo studioso comboniano, padre Giovanni Vantini, non sarebbe da escludere che giunse alle cascate Murchison oggi Kabalega (Uganda). Da parte sua, il grande meroitista F. Hintze ritiene che Nerone abbia mandato due spedizioni successive, perché la prima del 62 d.C., riportata da Seneca, parla di un “re d’Etiopia” che “fornì aiuti e commendatizie” ai centurioni; l’altra del 66-67, riportata da Plinio, parla di una regina (Candace).
Ma comunque siano andate le cose, l’interesse dei romani andava ben al di là delle geografia non foss’altro perché l’impero aveva bisogno di forza lavoro e dunque di schiavi. Testimonianze di quell’epoca indicano una presenza consistente di neri a Roma, utilizzati come gladiatori per i giochi nelle arene. Nei secoli successivi, merce di scambio privilegiata fu il prezioso “legno d’ebano”: così venivano chiamati in codice gli schiavi, unitamente alle armi da fuoco che giocarono un ruolo di primo piano, come oggi d’altronde, per la conquista e il controllo del potere.
Alla fine del Seicento, ad esempio, si impose il potente stato degli Ashanti sotto la guida carismatica di Osei Tutu: questo regno estese il suo controllo lungo tutte le coste degli odierni stati del Ghana e della Costa d’Avorio. Quello degli Ashanti fu certamente il più potente degli stati che si svilupparono tra la fine del Quattrocento e l’Ottocento sulla dorsale atlantica, dalla foce del Senegal sino ai confini occidentali del Camerun. Questi governi autoctoni si consolidarono fortemente con l’intensificarsi degli scambi commerciali con l’Europa; naturalmente gli schiavi erano la merce più pregiata. Ad esercitare il governo erano classi egemoni, a volte dinastie, che avevano ai loro ordini un apparato militare e uno burocratico capace di riscuotere e amministrare le imposte dei sudditi. È vero che l’organizzazione politica dei regni non si estese in modo uniforme su tutto il continente, vista anche la moltitudine di “Stati senza Stato”, cioè piccoli gruppi tribali di agricoltori senza norme statuarie. Ma è anche vero che si consolidò gradualmente un rapporto tra Africa ed Europa dovuto ai crescenti scambi commerciali. Merce di scambio privilegiata erano appunto gli schiavi.
Prima dell’epopea coloniale ottocentesca, sui 30.258.010 chilometri quadrati del continente africano non regnava l’anarchia; nel bene e nel male vi furono forme di governo, anche dispotiche, su tutto il territorio. È vero che le classi dirigenti locali legittimarono di fatto lo schiavismo, sacrificarono la propria gente e per trarne profitti iniqui. Lo schiavismo fu una vergogna per tutti: per i mercanti europei, i negrieri, che comprarono senza scrupoli la merce umana e per i capi africani che barattarono milioni di giovani con rhum, acquavite, polvere da sparo e fucili. Ma queste elite pagarono esse stesse un prezzo altissimo poiché furono schiacciate a una a una dalle potenze coloniali: l’ultimo sovrano degli Ashanti si arrese nel 1896 a un corpo di spedizione venuto dal mare per fare del suo regno una colonia della Corona britannica.
Per quanto concerne l’altro versante dell’Africa, quella orientale, è ancora oggi scioccante leggere la testimonianza del Capitano Moresby, ufficiale della Marina di Sua Maestà Britannica (Christopher Lloyd, The Navy and the slave trade, the suppression of the african slave trade in the nineteenth century, London: Frank Cass & Co. Ltd., 1968), per comprendere le vicissitudini a cui vennero sottoposti milioni d’innocenti. “I neri sono ammucchiati nella stiva del battello come merce sciolta” scriveva l’ufficiale, precisando che “la prima fila di persone, una accanto all’altra, viene sistemata sul fondo dello scafo. Sopra, è posta una piattaforma, sulla quale viene sistemata una seconda fila, e così via, fin sotto la coperta dell’imbarcazione. Si hanno notizie di battelli partiti da Kilwa con 200-400 schiavi ed arrivati 10 giorni dopo a Zanzibar con solo una decina di vivi”. Il suo diario è una delle prove più sconvolgenti della brutalità della tratta degli schiavi nell’Africa orientale tre secoli fa. Non mancarono, naturalmente, anche voci di denuncia come quella dell’esploratore e missionario scozzese David Livingstone (1813-1873). “Se si vuole essere sinceri – scrisse – devo ammettere che non mi sarebbe possibile ampliare anche minimamente le dimensioni di questo male: quando si parla di questo infame commercio, risulta semplicemente impossibile esagerare! Lo spettacolo che ho avuto sotto gli occhi è stato orribile!”
Il Santo Daniele Comboni, padre della chiesa cattolica sudanese (1831-1881) gli fece eco, denunciando che “l’abolizione dello schiavismo, deciso dalle potenze europee a Parigi nel 1856, è lettera morta per l’Africa Centrale”. Ancora oggi, al centro della capitale sierraleonese, Freetown, svetta il “Cotton tree”, un albero maestoso e secolare attorno al quale veniva radunata quella negritudine dolente, proveniente dall’entroterra, per essere vilmente venduta ai negrieri europei o d’oltre oceano. Per questo Paese il “Cotton Tree” è diventato il simbolo della libertà riconquistata da un popolo costretto per secoli a subire indicibili umiliazioni. Fu proprio in coincidenza con l’abolizione dell’ignobile tratta che la Corona di Sua Maestà Britannica decise d’inviare in questa terra le popolazioni afro che avevano finalmente ottenuto la libertà. Con grande entusiasmo, nel 1787, il filantropo inglese Granville Sharp ribattezzò la regione “The Province of Freedom”. Lentamente, poi, a partire dal 1896 vennero annessi amministrativamente anche i territori dell’interno, che formeranno lo Stato moderno della Sierra Leone. Una cosa è certa: come ebbe a scrivere il grande e indimenticabile Nelson Mandela, “nessuno è nato schiavo, né signore, né per vivere in miseria, ma tutti siamo nati per essere fratelli”.