Persone o cose?

Se tutto viene ridotto a una merce dalla quale guadagnare, allora il nostro cuore si è corrotto.

Il fenomeno della tratta di esseri umani, quello connesso della loro riduzione in schiavitù o quello dello sfruttamento di esseri umani tramite un lavoro indegno sono in teoria deprecati e condannati da tutti. Nessun essere umano, che non sia abbrutito a un livello bestiale, potrebbe trovare argomenti per giustificarli. Nessuno auspicherebbe per un proprio familiare (o anche soltanto per una persona alla quale è affezionato) un trattamento disumano di qualunque tipo, uno sradicamento forzato e violento dalla propria terra e dalla propria famiglia, o una mercificazione del suo corpo messo in vendita per strada, o un’ingiustizia lavorativa qualsiasi – dall’insostenibile orario di lavoro, alla negazione del riposo, alla retribuzione in nero e senza contributi. Nessuno accetterebbe che la sua propria libertà di disporre di sé venisse negata dall’arbitrio o dal potere di altri. Eppure tutto questo non ci è estraneo: non soltanto capita sotto i nostri occhi o a portata delle nostre orecchie, ma spesso ci vede complici se non addirittura protagonisti, magari nella frequentazione di quell’anticamera della mercificazione dell’essere umano che è il disprezzo.
Che cosa accade nel nostro spirito, al punto che non riconosciamo in questi sofferenti delle vittime da liberare e da sostenere? Che aggancio trova in noi la violenza bestiale della tratta e dello sfruttamento, alla quale siamo sempre tentati di acconsentire? E per lo sradicamento della quale stentiamo a impegnarci, sia come singoli che come comunità?
Quando la persona umana è ridotta a una cosa, a una merce sulla quale speculare, questo accade perché la materia prevale sullo spirito. Se tutto viene reificato, ridotto a una merce dalla quale guadagnare e trarre profitto, allora il nostro cuore si è corrotto.

In definitiva si tratta di adempiere quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità (Amoris Laetitia, 96).

La libertà dell’amore che viene riversato nei nostri cuori dallo Spirito (Rm 5,5) passa per un rapporto cristiano con gli averi e per il ristabilimento di una gerarchia di valori dove le persone sono trattate e comunque ritenute più preziose delle cose materiali, del denaro o del proprio tornaconto. Nella realtà non è sempre così. E poiché siamo spiriti incarnati, questo concreto rapporto con le cose materiali non è trascurabile, né risolto una volta per tutte. Fa parte ogni giorno della nostra esistenza, incide molto concretamente sulla nostra anima e sulla nostra reale capacità di amare: dunque di essere in relazione con qualcuno in termini di rispetto se non di cura, così da non ridurre mai nessuno in schiavitù fisica o morale o lavorativa, agendo con disinteresse e cercando sempre di non perdere nessuno dei nostri fratelli (cfr. Mt 18,15).
Un rapporto non riconciliato con i beni e con i fratelli con i quali li dobbiamo condividere, può arrivare addirittura ad appropriazioni indebite, al furto e all’inganno, perpetrati anche a danno dei poveri, stornando soldi e mezzi loro destinati o dei quali avrebbero certamente più bisogno di noi.

La guarigione viene stando davanti e dentro al cuore di Gesù crocifisso

Il problema è nel cuore, il problema è il cuore. Se il cuore è corrotto (e lo si capisce molto concretamente verificando come reagiamo ai fenomeni dei quali stiamo ragionando, che non riguardano soltanto gli altri e non noi)  occorre tornare sempre a imparare a leggere quel libro nel quale viene in un certo senso spiegato e rappresentato cosa sia il vero amore per il prossimo, quello che nega ogni forma di schiavitù, di riduzione della dignità, ogni violenza più o meno interessata: questo libro è Cristo crocifisso (cfr. 2 Cor 5, 14-21).
Davanti a lui si impara una qualità dell’amore che spalanca un nuovo modo di essere: «Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale» (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 12). È alla luce di un tale rovesciamento di giudizio affermato sulla Croce che si può comprendere nella giusta luce come liberarsi da quell’attaccamento alle cose che impedisce di amare fino in fondo, perfino contro il proprio immediato (e magari legittimo) interesse: Gesù ha considerato la nostra vita meritevole del dono totale di Sé, anche volgendosi “contro se stesso”, perché quel che ha cercato con tutto Sé stesso è stata la nostra salvezza, e non la Sua (cfr. Mc 15, 29; Lc 23,39).

Il mio invito alla conversione si rivolge con ancora più insistenza verso quelle persone che si trovano lontane dalla grazia di Dio per la loro condotta di vita. Penso in modo particolare agli uomini e alle donne che appartengono a un gruppo criminale, qualunque esso sia. Per il vostro bene, vi chiedo di cambiare vita. Ve lo chiedo nel nome del Figlio di Dio che, pur combattendo il peccato, non ha mai rifiutato nessun peccatore. Non cadete nella terribile trappola di pensare che la vita dipende dal denaro e che di fronte ad esso tutto il resto diventa privo di valore e di dignità. È solo un’illusione. Non portiamo il denaro con noi nell’al di là. Il denaro non ci dà la vera felicità. La violenza usata per ammassare soldi che grondano sangue non rende potenti né immortali. Per tutti, presto o tardi, viene il giudizio di Dio a cui nessuno potrà sfuggire (Misericordiae Vultus, 19).

Stando con Gesù Cristo si impara a conoscere l’amore vero, che è quello del cuore di Cristo, e possiamo così avere il coraggio di proporci e di proporre relazioni esigenti quanto a giustizia, ma liberanti. La nostra vita non si accresce e non migliora rubando quella degli altri, sottraendo loro quello che loro spetta, sfruttando qualcuno per accumulare unicamente per noi, ma donando. Camminare sulla via di Cristo e imparare il suo sguardo sulle persone fa diventare capaci di donare non qualcosa, ma noi stessi.
Anche la forma più blanda di esercizio del potere ha bisogno di essere sempre purificata e messa sotto lo sguardo di Cristo che dà la sua vita per noi e non prende la nostra. Nello sfruttamento di altri esseri umani c’è sempre un esercizio corrotto del potere e delle proprie risorse, indirizzate non a donare vita – cioè ad amare – ma a rubarla, pensando di accumularla per sé.
Il potere non può curare la paura di morire, la paura di non valere o di non essere nessuno; i soldi possono dare questa illusione, ma prima o poi essa si rivelerà tale semplicemente finendo. Così come le nostre ferite nella capacità di amare, e che si esprimono ad esempio nella pratica della prostituzione, non ci guariscono e non ci fanno sentire autenticamente umani. La dissociazione tra corpo e spirito, in questo caso, è perfino evidente.
L’ingiustizia di un guadagno accumulato rubando a chi non riceve il giusto salario non creerà mai pace e reale sviluppo economico, anzi: genererà insicurezza sociale, violenza, rivendicazioni ottenute con mezzi non sempre leciti e condivisi, fasce sociali emarginate e “scartate” dall’accesso ai beni materiali e immateriali.

Luca 12,13-21

«In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. E disse loro: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. Disse poi una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio».

Un giorno Gesù si trovò coinvolto in una discussione circa un’eredità. Nella risposta che diede, si manifesta la consapevolezza che Egli aveva della sua missione: non era venuto per fare da arbitro in discussioni su dei beni materiali, e neppure era un amministratore di finanze o di patrimoni. Tuttavia, faceva parte della sua missione illuminare le persone riguardo al senso della vita, che non consiste ultimamente nell’avere molte cose, bensì nell’essere ricco per Dio, “davanti a Lui” (Lc 12,21).
Si spiega così anche la collocazione a questo punto del Vangelo della parabola dell’uomo ricco, preoccupato per suoi beni, improvvisamente aumentati a causa di un raccolto abbondante, ai quali quest’uomo pensa di poter affidare tutto il suo destino. L’accumulo nei granai gli garantirà – così pensa – una vita futura senza preoccupazioni. Si tratta dell’inganno procurato dalla ricchezza, grazie alla quale uno pensa di avere finalmente potere su ogni altro aspetto della vita, affrancandosi tra l’altro da qualunque altro tipo di legame – fosse anche quello dei suoi familiari o del suo prossimo – chiudendosi in una soddisfazione di sé che lo risucchia sempre più, isolandolo dalla realtà, dalla verità e dal bene. In effetti, è la ricchezza a dominare colui che la possiede (cfr. Mt 6,24-34). Ci sono persone che credono addirittura di poter servire allo stesso tempo sia Dio sia il danaro e così affidano la stabilità della loro esistenza un po’ all’uno e un po’ all’altro. L’inganno della ricchezza (cfr. Mt 13,22), invece, conduce soltanto all’affanno.
«Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?». La morte rivela ciò che perisce e ciò che rimane. Chi cerca solo di avere e dimentica l’essere, perde tutto nell’ora della morte. «Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». Come diventare ricco per Dio? Nel Vangelo Gesù dà alcuni suggerimenti: è meglio dare che ricevere (At 20,35); il più grande è il più piccolo (Mt 18,4; 23,11; Lc 9,48); salva la sua vita colui che la perde (Mt 10,39; 16,25; Mc 8,35; Lc 9,24).