«Amerai il forestiero come te stesso»

L'accoglienza dei fratelli, il criterio essenziale del giudizio di Dio.

«Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34).

 Un’occasione d’incontro con Gesù Cristo

Da questo versetto del Levitico parte la riflessione di papa Francesco nel suo messaggio per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra il 14 gennaio 2018, con la quale egli vuole rivitalizzare «la sollecitudine della Chiesa verso i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta». Alla luce di Lv 19,34, il Papa invita a riconoscere nel forestiero un autentico dono di Dio: «Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è un’occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca» e ricorda con forza che «il Signore affida all’amore materno della Chiesa ogni essere umano costretto a lasciare la propria patria alla ricerca di un futuro migliore».

Un popolo forestiero

Nell’autocoscienza di Israele è sempre stata viva la consapevolezza di essere un popolo «forestiero»: in Dt 26,5-9, nel suo famoso credo storico, ad esempio, il popolo d’Israele rilegge la sua esperienza di comunità che ha vissuto come forestiera in terra straniera. Il popolo di Dio ha dunque un’origine segnata dalla stranierità, come ricorda il profeta Ezechiele: «per origine e per nascita tu sei del paese dei cananei: tuo padre era amorreo e tua madre hittita» (Ez 16,3). Inoltre lo stesso appellativo di ‘ibrî, «ebreo», che i popoli confinanti davano a Israele e che Israele ha riconosciuto come suo, significa «colui che abita oltre la frontiera», cioè «straniero», «barbaro».
Questa condizione di stranierità è un elemento costitutivo della propria memoria e della propria identità: nel DNA di Israele vi è un’identità non residenziale e anche quando avrà un luogo per dimorare, manterrà questa identità. Perciò è l’esperienza dell’Esodo che sta in filigrana ad ogni invito veterotestamentario all’accoglienza dello straniero. È il passato di straniero che rende Israele un popolo atto a edificare un presente e un futuro di accoglienza nei confronti dello straniero. L’Esodo rende lo straniero fratello, in quanto creatura che vive la stessa condizione di precarietà e marginalità. Israele ha chiara la lezione: l’esperienza del migrare aiuta a superare l’autosufficienza e insegna a ricevere. Se lo straniero viene accolto come un fratello, allora va amato come prossimo, come un altro se stesso.

Da hospes a hostis

Nell’antichità il livello di civiltà di un popolo si riscontrava proprio dalla sua capacità di mostrarsi ospitale verso gli stranieri. I padri del popolo, specie Abramo e Giacobbe, furono migranti e il popolo eletto è per Dio un popolo di gērîm wetôšābîm, «forestieri e ospiti» (Lv 25,23). Poi nel Libro dell’Esodo, con l’apparire di un faraone che non aveva conosciuto Giuseppe, l’hospes («ospite») si trasforma in hostis («nemico») che, prima di indicare lo straniero con cui si ha un rapporto di belligeranza, a Roma indicava lo straniero i cui diritti erano equiparati a quelli dei cittadini romani (da hostīre, cioè «uguagliare», «contraccambiare»). Percepito come minaccia, Israele viene oppresso e mortificato. Per questo grida a Dio e Dio lo ascolta. Se Dio dunque si è preso cura di questo popolo di migranti che ha gridato a lui, anche Israele si è sentito fortemente chiamato ad occuparsi degli stranieri e a non lasciare inascoltato il loro grido. Quindi è proprio su questa esperienza, su questa condizione dolorosa vissuta dai padri in Egitto nella quale però ha fatto irruzione il braccio salvifico di Dio, che si fonderà l’etica di Israele verso lo straniero, e su di essa e grazie ad essa si fonderà la sacralità dell’accoglienza dovuta agli stranieri e ai rifugiati. Più volte, infatti, risuona come motivazione dell’accoglienza (Es 22,20; 23,9) o dell’amore (Dt 10,19; cf. Lv 19,34) verso lo straniero il ritornello: «perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto» (Es 22,20; 23,9; Lv 19,34; Dt 10,19).

Dio ama lo straniero

Ma l’amore allo straniero non è dettato solo dalla stranierità vissuta da Israele. Esso ha le sue radici anche in un’affermazione forte e incisiva: «Dio ama lo straniero» (Dt 10,18). Questa dichiarazione sorprende, dato che conosciamo la predilezione del Signore nei confronti del popolo che rappresenta la sua «eredità» (Es 19,5), la «pupilla» del suo occhio (Dt 32,10; Zc 2,12). L’amore di Dio verso lo straniero fa da contrappeso all’amore di Dio per Israele, testimoniato in Dt 4,37; 7.8.13. Va notato, inoltre, che su quattro volte in cui nel Primo Testamento Dio è soggetto del verbo «amare» (’hb), una di esse ci faccia contemplare prioprio il mistero dell’amore di Dio per lo straniero. Se Dio ama lo straniero, allora anche Israele dovrà amarlo, come recita il comando: «Amate lo straniero» (Dt 10,19).
Da questa verità derivano diverse conseguenze: come al levita, all’orfano e alla vedova, anche allo straniero sono riservate le decime del raccolto (Dt 14,28-29) quale misura di previdenza sociale, viene concesso il diritto della spigolatura del grano, dell’olivo e dell’uva (Dt 24,19-21), il diritto al riposo del sabato come tutti gli israeliti (Es 20,10) e a partecipare alla festa delle capanne (Dt 16,14) e delle settimane (Dt 16,11-12); a lui inoltre viene riservata la tutela giuridica (Dt 1,16-17; 27,19).

Abramo e l’accoglienza di uno straniero speciale

È Abramo che in Gen 18 ci presenta una sorprendente liturgia dell’ospitalità. Accogliendo con squisita premura i tre forestieri che passano per la sua strada egli manifesta la sua totale disponibilità a un’accoglienza che comprende cura, ristoro, nutrimento: va loro incontro, si prostra dinanzi a loro, offre loro dell’acqua come refrigerio e cibo per rifocillarli, coinvolgendo sua moglie Sara per preparare focacce e il suo servo per preparare panna, latte e carne di vitello. Accogliendo i tre stranieri, Abramo diviene testimone privilegiato della visita di Dio che si presenta come pellegrino e forestiero e che in queste vesti non giunge da lui a mani vuote, ma con un grande dono per lui e per Sara: la promessa di un figlio.

Diffidenze verso i popoli stranieri

Ma una cosa è stata la relazione verso il singolo straniero, un’altra verso i popoli stranieri, considerati una minaccia contro la fede, perché visti come coloro che, introducendo in Israele elementi allogeni, rischiavano di contaminarne la fede e le tradizioni. Per questo incontriamo testi molto duri contro gli stranieri che rivelano un pensiero fortemente particolarista. Gli stranieri sono visti a volte come l’incarnazione della ribellione nei confronti di Dio. Nel giudaismo post-esilico si fronteggiano così la posizione di chiusura e quella di apertura e troviamo il culto della purezza etnico-rituale da un lato e la tolleranza verso il gher dall’altro. Con il Deutero-Isaia, testimone del ritorno di Israele dall’esilio, troviamo però le pagine più missionarie e più aperte alla cui base vi è l’idea di Dio creatore e Signore di tutto e di tutti, che starà anche alla base dell’orizzonte sapienziale della Scrittura che dialoga anche con la sapienza profana. L’universalità con cui Dio provvede a tutti fonda l’universalismo religioso di Israele.

L’amore verso lo straniero di Cristo e dei battezzati

L’attenzione allo straniero è pertanto comandamento nel corpus del Pentateuco e il diritto all’ospitalità diviene sacro, inviolabile, non negoziabile. Anche il Nuovo Testamento conferma questa prassi e ne indaga ulteriormente le motivazioni e ciò che la fonda. Qui l’ospitalità (philoxenía o «amore per lo straniero») appare un’espressione fondamentale dell’amore verso il prossimo, una manifestazione luminosa e alta dell’agápē. Essa è presente nei requisiti utili alla selezione dell’epískopos (cf. 1Tm 3,2; Tt 1,7-8) e all’iscrizione di una donna all’albo delle vedove cristiane (cf. 1Tm 5,9-10). Paolo che fa esperienza di accoglienza (da parte di Lidia, Prisca e Aquila, Febe, ecc…) invita i credenti a essere premurosi nell’ospitalità (cf. Rm 12,13), qualità che anche l’autore della Lettera agli Ebrei invita a praticare, sull’esempio di Abramo che, in tal modo, senza saperlo ha «accolto degli angeli» (Eb 13,2).
Gesù fa dell’ospitalità la cornice del suo ministero itinerante e invita all’ospitalità. Egli non ha dove posare il capo (cf. Mt 8,20), ma è ospitato in casa di Pietro, in casa di Marta e Maria, alle nozze di Cana. Invita i suoi discepoli missionari a dimorare nelle case che li accolgono e sperimenta spesso insieme a loro il dramma del rifiuto. Accoglie tutti coloro che incontra sul suo cammino, li accoglie nel suo cuore, nella sua compassione e si lascia ospitare da tutti, sia dai farisei che dai peccatori. Inoltre invita a vedere l’ospitalità non secondo la logica del contraccambio, ma secondo lo stile della gratuità: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio (antapódoma). Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,12-14).
Praticare un’ospitalità senza interessi immette già il credente nell’atmosfera della risurrezione. L’ospitalità raggiunge però il suo apice nella pagina di Mt 25,31-46, dove Gesù conclude il suo discorso escatologico. In questo contesto di giudizio, appare la sintesi della teologia di Matteo: ogni credente sarà giudicato dal Re Pastore sulla base della qualità delle relazioni intessute con il prossimo, su cosa ha rappresentato per ciascuno l’altro, sulla capacità di armonizzare il primo con il secondo comandamento: amare Dio e amare il prossimo (cf. Mt 22,39). Il giudizio riposerà su un criterio davvero essenziale: l’accoglienza di Dio nei fratelli.
Gli eredi del regno del Padre saranno quanti hanno fatto della loro esistenza una liturgia di ospitalità di quel Dio che si è fatto carne nella carne umana, che cioè ha preso dimora non in luoghi inaccessibili, ma nell’uomo e nella donna fatti a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26), specie in coloro che portano nella loro carne i lividi della vita e di varie forme di ingiustizie: gli affamati e gli assetati, gli stranieri, i poveri, i malati e i carcerati. Quanti hanno avuto occhi e cuore capaci di scorgere il volto del Figlio in quello sfigurato e privo di bellezza dei loro «fratelli più piccoli» sono gli eredi del Regno. Tutta la giustizia di cui Gesù ha parlato nel Vangelo di Matteo si sintetizza dunque nella capacità di lasciarsi forgiare un cuore integro con cui poter amare Dio e i fratelli senza antitesi, in una splendida polifonia.
Questo cuore integro è il cuore di Cristo che impegna anche noi alla compassione e che offre occhi penetranti, capaci di vedere negli altri «la terra sacra» (EG 169) dove Dio abita e si glorifica. E noi questa terra sacra riusciamo a vederla nell’altro, accettando la sfida di andare oltre le paure, i sospetti e i pregiudizi?