Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace

L'accoglienza non è confinata tra i compiti esclusivi dei politici o di chi decide le sorti di molti.

«Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale, è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace». Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta. Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale».
(dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2018)

Il «come» dello Spirito

Scrivendo ai Romani (15, 1-7), Paolo parla al plurale e parla del «dovere di sopportare l’infermità dei deboli», perché questo fa parte dell’ «avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù». Si tratta, cioè, di un carattere condiviso e condivisibile, che configura il «noi» ecclesiale. L’accoglienza è una vocazione della quale non si può fare a meno, e dipende essa stessa da un «come» che in un certo senso precede la nostra capacità e volontà di accoglienza: «accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio».
«Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi. Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo. Cristo infatti non cercò di piacere a se stesso, ma come sta scritto: gli insulti di coloro che ti insultano sono caduti sopra di me. Ora, tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza. E il Dio della perseveranza e della consolazione vi conceda di avere gli uni verso gli altri gli stessi sentimenti ad esempio di Cristo Gesù, perché con un solo animo e una voce sola rendiate gloria a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
Accoglietevi perciò gli uni gli altri come Cristo accolse voi, per la gloria di Dio».
La misura e la forma dell’accoglienza sono visibili in Gesù Cristo, e quel «come» è azione dello Spirito Santo in noi, nella Chiesa e nel mondo. Tuttavia, benché si accendano dal di dentro, per tradursi in comportamenti concreti, le operazioni dello Spirito Santo hanno bisogno della nostra azione, perché Dio rimane Dio e l’uomo rimane uomo, «senza confusione e senza separazione».
L’azione dello Spirito Santo – l’effusione della carità che Egli è – in noi (Gal 4,6) non soffoca  né violenta la nostra normale attività psicologica. Il suo dinamismo di eros/agape entra in relazione e passa attraverso la coscientizzazione di una mente che pensa, di una coscienza che discerne e decide, di una volontà che a poco a poco sedimenta un tipo di sapienza e di mentalità che sono tipiche di Cristo.
Non si tratta di un’esplicitazione meccanica: occorre un lavoro lungo di assimilazione e di capacità creativa, cioè libera e responsabile, storicamente situata. Un lavoro del genere riguarda anche la virtù dell’accoglienza e i processi che essa mette in moto.

Lo Spirito esercita su di noi una duplice funzione:
una funzione illuminatrice: egli insegna a incarnare i tratti tipici di Gesù, fa emergere in ogni situazione la vita e il pensiero di Cristo, insegna a trovare la via creativa per esprimere Cristo;
una funzione partecipativa: l’azione dello Spirito non si limita a segnalare, ma dona la capacità realizzatrice, l’efficacia propria del Risorto e della sua forza. Lo Spirito esercita come una pressione, uno stimolo efficace che ci abilita a praticare, non come costrizione, ma come un bisogno del nostro essere, la vita di Cristo fino a rendere leggibili in noi i tratti del suo volto. Paolo sintetizzerà tutto questo con un’espressione famosa in 2 Cor 3,2: «Voi mostrate che siete la lettera di Cristo, scritta mediante lo Spirito del Dio vivente nelle tavole che sono il vostro cuore».

Imparare da Marta e Maria

«Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, [per] permettere quell’inserimento. Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare». (dal Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2018)

In Lc 10, 38-42 troviamo un esempio importante di come si può plasmare la virtù dell’accoglienza in un discepolo del Signore. È il famoso passo dove viene descritto Gesù ospite in casa di Marta e di Maria, a Betania, dove appare chiaramente che, prima di essere una cosa da fare, l’accoglienza è sempre ospitare qualcuno molto concretamente.
«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta».
Il Signore si nasconde in chi chiede ospitalità, dice la Bibbia (cfr. Mt 25,35; Eb 13,1), e chi è suo discepolo deve saperlo. Io devo sapere che può capitare anche a me di accogliere qualcuno magari senza rendermi subito conto che sto accogliendo il Signore. Anzi, dice Gesù nel Vangelo di Matteo, potrà accadere che mi accorga di questo solo durante il giudizio finale, quando dirà: «Ero forestiero e tu mi hai ospitato». Potrei essere tra coloro che gli rispondono: «ma quando ho fatto questo, Signore?». «Ogni volta che lo hai fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli» risponderà a sua volta.
Una domanda fondamentale, dunque, alla quale dobbiamo poter rispondere riguarda proprio la nostra capacità di accogliere. Una capacità del genere non va da sé, non si può dare per scontata, non può neppure essere considerata un portato spontaneo di una cultura o di una tradizione: si sviluppa a partire da presupposti (sicurezza e consistenza interiore, libertà di sé, scioltezza comunicativa, affettività sostanzialmente sana e oblativa, apertura di cuore) tutt’altro che pacifici: anzi, sempre bisognosi di formazione e di cammino interiore.
Contemporaneamente, necessita dell’attivazione di processi anche sociali sempre complessi e quasi mai del tutto pacifici, dipendenti a loro volta dalle risorse disponibili da condividere con chi chiede accoglienza, dalle prospettive di vita affermate dai migranti o dagli stranieri quali loro diritti, dal sistema sociale più o meno capace di pluralismo, di effettiva integrazione e di sana libertà religiosa. Se questi fenomeni fossero affrontati soltanto a partire dall’emotività e dall’allarme per la sicurezza sociale, rimarrebbero insolubili. Proprio il riconoscimento della comune intelligenza e razionalità umane, e l’universale desiderio di una vita degna dell’uomo costituiscono la prima, insostituibile base per l’incontro e la comprensione vicendevole, cioè per la pace.
Laddove non ci siano questi presupposti, l’ospitalità da occasione per manifestare fede, amore e speranza, diventa facilmente causa di lacerazione del tessuto sociale, pericolo sociale, conflitto, astio razzista.
I massicci fenomeni migratori in atto, che mettono in rapporto tra loro gente proveniente da paesi poveri o resi invivibili da guerre e atrocità varie, con gente che vive invece in aree tutto sommato sviluppate e pacifiche del pianeta, ci interpellano talora con durezza a proposito dell’ospitalità.
Abbiamo bisogno di riconciliarci con chi chiede di essere aiutato e ospitato, e abbiamo bisogno di vedere questa gente con gli occhi della fede e non soltanto con quelli della politica, della sociologia o dell’economia.
Un tale sguardo di fede ci aiuta a non abdicare subito al nostro compito, confinando l’accoglienza di chi emigra tra i compiti esclusivi dei politici o di chi decide le sorti di molti. Nella creazione di rapporti pre-politici,di base, possibili per la vita ordinaria e quotidiana trascorsa insieme su uno stesso territorio, la tessitura paziente di una rete di incontri, scambi, conoscenze, tra chi arriva e chi accoglie, si rivela un presupposto decisivo per qualsiasi altro sviluppo dell’ospitalità, che è quanto dire per quel riconoscimento della dignità e del valore dell’essere umano che chiamiamo accoglienza.
La paura del diverso, dello sconosciuto, del forestiero, appartiene al patrimonio genetico dell’uomo che non ha conosciuto Cristo. La novità possibile in Cristo consiste nella fatto che egli é presente proprio chi chiede di essere accolto. Il Vangelo ci mostra una concreta occasione nella quale Gesù è stato ospitato.  Di fatto, possiamo accogliere come Marta o come Maria.
Accogliamo come Marta tutte le volte che ci affatichiamo a fare qualcosa per qualcuno: quando, cioè, ci impegniamo in «molti servizi» per qualcuno che ha bisogno. Questo tipo di accoglienza rimane fondamentale: preoccuparsi di risolvere i problemi o i bisogni di qualcuno è un primo livello di accoglienza che stiamo lentamente perdendo e che comunque non va né trascurato né dato per scontato. Si tratta di un’attenzione assai concreta che non possiamo delegare solo ai servizi sociali, ai comuni o ad altri enti. Il benessere ha prodotto, specialmente nelle nuove generazioni, una sorta di insensibilità rispetto ai bisogni materiali di chi si trova nella necessità, con un conseguente egoismo che si fa cieca protezione del proprio anche rispetto a chi si è visto toglier tutto.
Accogliamo come Maria quando mettiamo al centro la persona, e offriamo non cose o servizi, ma ascolto, comprensione, amicizia, tempo. Questo tipo di ospitalità è la «parte migliore» che possiamo offrire in una relazione umana, nella stessa relazione di fede con Gesù. E sarà ciò che non sarà mai tolto.
Si possono offrire cibo, vestiti, coperte, magari anche alloggi ai migranti e ai rifugiati, ma non spendere per loro attenzione, affetto, ascolto, comprensione. In realtà, insegna Gesù, questa è l’accoglienza del discepolo di Cristo, quella che egli chiede per se stesso. L’accoglienza di questo tipo è sempre necessaria, ed è una delle virtù specifiche della carità cristiana. Se il primo tipo, quello che offre servizi, può essere fatto anche dallo Stato e dalle sue strutture, questo secondo no: non si produce con i budget, con le proiezioni statistiche o la allocazione delle risorse. Anche nei gruppi e nelle realtà tra le quali offriamo il nostro servizio di carità, occorre vigilare per non essere persone che offrono solo servizi o cose, ma non noi stessi.
Marta e Maria sono sorelle, vivono insieme. Così dev’essere anche l’opera dell’accoglienza: deve legare l’ospitalità concreta, che si preoccupa delle cose da fare e dei servizi da attivare, e l’ospitalità relazionale, che si fa carico delle persone e della loro anima. Per questa via ci si esercita – come singoli e come comunità – nell’artigianato della pace.
«Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Evangelii gaudium, 49). Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda. […]
Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile. Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)! (dal discorso del Papa alla Chiesa italiana radunata a Convegno in Firenze)