Per fare chiarezza

Qualche dato, reale, per riflettere sul fenomeno delle migrazioni.

Com’è noto, papa Francesco ha dato grande rilevanza al tema delle migrazioni nel  messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2018. Nel testo tra l’altro si legge l’auspicio che, lungo il corso del prossimo anno, si pervenga “alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche”.  In effetti, chiunque abbia vissuto nelle periferie del nostro povero mondo – pensiamo, ad esempio ai nostri missionari e volontari – è consapevole della complessitĂ  del fenomeno migratorio. A parte i tradizionali scenari di guerra, quasi mai è rintracciabile una sola ragione che determini l’abbandono del proprio paese: nessuno è profugo per caso. Infatti, le migrazioni sono originate da una serie di fattori che interagiscono tra loro: persecuzioni politiche, religiose, carestie, esclusione sociale, violazioni dei diritti umani… Tutte cause che generano uno stato di diffusa insicurezza e precarietĂ , con particolare riferimento al versante Medio Orientale e all’Africa Subsahariana, da cui è giunto in questi anni il grosso della mobilitĂ  umana verso l’Europa.  A questo proposito è doveroso fare chiarezza, andando al di lĂ  dei luoghi comuni o dei pregiudizi forvianti. Basti pensare al fatto, ad esempio, che l’Europa non è il continente maggiormente coinvolto nelle migrazioni. Attualmente la mobilitĂ  umana interessa 60/70 milioni di persone e il flusso, che ha portato al famoso milione di profughi in Europa nel 2015, è diminuito drasticamente nel marzo 2016 quando l’Unione Europea ha stretto un accordo con la Turchia, delocalizzando sostanzialmente la gestione dei profughi in arrivo in cambio di sei miliardi di euro. È una strategia che l’Europa, o meglio l’Italia con l’altalenante appoggio di Francia e Germania, sta riproponendo con la Libia e la rotta del Mediterraneo centrale. Sta di fatto che tra il 1 gennaio e il 30 novembre 2017, sono arrivati via mare in Europa circa 165 mila migranti. Parlare pertanto di un’invasione è fuori luogo, considerando, peraltro, che un Paese come l’Uganda, nel cuore della regione africana dei grandi laghi, attualmente accoglie un milione di rifugiati; nella sola zona del West Nile sono ospitati 450mila profughi sudsudanesi. E cosa dire dell’Etiopia che conta 500mila rifugiati provenienti anch’essi dal Sud Sudan? Da rilevare che i governi europei, in linea di principio sono disposti ad accettare i “rifugiati” e non i “migranti economici”.  Si tratta di una distinzione a dir poco fuorviante. Ammesso pure che vi fossero solo due categorie, come affermava nell’ormai lontano 1973 un certo Egon Kunz, che elaborò la suddetta distinzione, meglio nota come “push/pull theory” – coloro che partono per necessitĂ  (ipushed) e chi lo fa invece per scelta (i pulled) – il paradosso è evidente. Se il migrante scappa dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come rifugiato), se invece fugge da inedia e pandemie, in quanto nel suo paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare inesorabilmente il suo infausto destino. E dire che molti popoli del Sud del mondo sono penalizzati proprio dalla globalizzazione dei mercati che non hanno certo inventato i migranti. Un quadro complessivo che trova conferme anche nel rapporto 2017 di Oxfam, il quale evidenzia come l’aumento della disparitĂ  di reddito in molti paesi del mondo escluda gran parte della popolazione dai benefici della crescita economica e la disuguaglianza sia in aumento. Col risultato che oggi 1% della popolazione mondiale detiene una ricchezza superiore al restante 99%. Queste percentuali confermano un trend che si è andato consolidando a seguito, soprattutto, della finanziarizzazione dell’economia. Si tratta di un fenomeno che non solo ha penalizzato l’economia reale, ma ha favorito e legittimato l’accumulo di risorse da parte di un manipolo di nababbi, ai danni dei piĂš poveri. Invece di sgocciolare verso il basso, reddito e ricchezza sono risucchiati verso il vertice della piramide ad una velocitĂ  allarmante. Ha pertanto ragione il gesuita John Haughey nell’affermare che “Noi occidentali leggiamo il Vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo”. Non è un caso se la recessione di questi anni abbia evidenziato, comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala. Vogliamo allora rassegnarci a vedere l’uomo vivere come  “homo homini lupus”? S’impone pertanto una seria riflessione sullo stretto legame che esiste tra la povertĂ  e la responsabilitĂ  di chi amministra le nazioni. “I governi – affermò senza mezzi termini il grande Zygmunt Bauman – non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni piĂš mediatiche”. Bauman è sempre stato convinto di come qui, nell’ Europa che ci appartiene, le comunitĂ  diventino spesso “la comoda valvola di sfogo per il risentimento della societĂ , a prescindere dai valori dei singoli, da quanto impegno e onestĂ  questi mettano in gioco per diventare cittadini”. Col risultato che si acuiscono, anche qui in Italia, intolleranze ed estremismi. Ecco che allora ha davvero ragione il saggista camerunese Yvan Sagnet nell’affermare che “Quando i poveri si convincono che i propri problemi dipendano da chi sta peggio di loro, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti”.