Legami da tessere
La Turchia: terra di passaggio, ma soprattutto un Paese da conoscere. Intervista a mons. Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico d’Anatolia.
La Turchia? Una terra che si conosce poco. “Si è diventati lontani ed estranei, mentre sarebbe auspicabile creare delle modalità non superficiali o turistiche per conoscere cosa avviene in loco”, sottolinea mons. Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico d’Anatolia e da un paio di settimane presidente della Caritas locale. L’invito è a visitare il Paese, a farne esperienza, ad esempio attraverso dei gemellaggi o dei viaggi studio che possano costruire delle relazioni utili a rafforzare le comunità e rendere sostenibili i progetti nel lungo periodo.
La Turchia è da sempre crocevia di culture e di fedi. Quale messaggio arriva da questo Paese?
I messaggi, a livello esplicito, che arrivano da parte del governo sono molto lineari, ovvero che la Turchia sia una potenza di primo piano. In realtà è un Paese grande e molto complesso, con tante componenti, che suscita diversi interessi nelle potenze vicine e lontane. Si impone quindi cautela prima di cercare di capire troppo rapidamente quali messaggi arrivano.
Da quasi quattro anni è vicario apostolico dell’Anatolia. Cosa ha imparato e di cosa si stupisce ancora?
Mi stupisco della bontà della gente normale, che è accogliente con lo straniero e con il rifugiato. Stando in Turchia, ho imparato a vedere le vicende dell’Europa in modo più articolato e a scorgere meglio i giochi sporchi a livello internazionale. È un Paese interessante e, in quanto cristiano, sono contento di far parte di una minoranza che è contenta di essere cristiana.
Ci avviciniamo alla Pasqua, termine che significa ‘passaggio’. La Turchia è da sempre terra di passaggio. Qual è la situazione attuale dei migranti?
Quella dei migranti purtroppo è una situazione bloccata in quanto gran parte dei Paesi verso cui sarebbero diretti hanno i confini totalmente chiusi. A livello interno, i rifugiati iracheni e afghani non hanno libertà di movimento da una città all’altra e questo comporta notevoli problemi poiché si vanno creando dei piccoli ghetti: le persone non si possono incontrare, settimanalmente devono firmare la loro presenza, non possono uscire senza il permesso della polizia, non possono avere un lavoro regolare. Se nella prima fase tutto questo era sostenibile, ora è diventato intollerabile, soprattutto perché molte famiglie vivono così da anni.
Qual è l’impegno della Chiesa in Turchia e come procede il progetto finanziato con i fondi della Campagna “Liberi di partire, liberi di restare”?
La Chiesa ha dei limiti precisi nell’esercizio delle proprie attività. I nostri confini di azione sono molto ristretti: non possiamo ad esempio aprire centri culturali o promuovere corsi di lingua. Cerchiamo di aiutare i nostri cristiani rifugiati con le tessere alimentari e con i microprogetti, e questo grazie alla generosità dell’Italia e dei fratelli cristiani d’Occidente. Il progetto finanziato dalla Campagna Cei va avanti, ma è fondamentale lavorare sulle condizioni di possibilità perché possa continuare ad andare avanti e questo attiene alla sfera dei rapporti tra Santa Sede e Governo locale. Il progetto ha permesso di fare molte cose, la gente è grata ma nello stesso tempo sogna che si aprano delle possibilità così che non debba essere più dipendente dall’aiuto esterno. In sintesi: diamo il pesce oggi, ma lavoriamo per dare la canna da pesca e soprattutto la licenza per pescare.
I nostri problemi in Turchia hanno radici qua: ecco perché bisogna lavorare su due fronti.