Migrazioni: una visione altra

Migrazioni: una visione altra

"Lungi da ogni retorica, la sfida, prima ancora che essere sociale, politica ed economica. Culturale perché bisogna far girare i neuroni della testa e del cuore", sottolinea padre Giulio Albanese, direttore di Popoli e Missione.

di Giulio Albanese, direttore di Popoli e Missione


L’inconsistenza dei luoghi comuni
 

  • Aiutiamoli a casa loro
    La tesi oggi prevalente nelle relazioni tra Europa e Africa può essere riassunta in questo slogan ad effetto: “aiutiamoli a casa loro”. L’intento è quello di scongiurare un’ipotetica invasione dell’Europa a seguito della mobilità umana dalla sponda meridionale del Mediterraneo. Alla prova dei fatti, però la cooperazione internazionale è sempre più incentrata sul teorema clintoniano “Trade not Aid” (“Commercio e non Aiuti”), con il risultato che l’Africa è sempre più una terra di conquista. Negli ultimi 20 anni, infatti, il fenomeno del land grabbing, l’accaparramento di vastità enormi di terre nei paesi africani, da parte delle potenze straniere (Cina, Stati Uniti, Europa…) è cresciuto proporzionalmente al boom dei mercati delle cosiddette commodity, in particolare minerali rari, fonti energetiche e materie prime alimentari. Un fenomeno che peraltro è andato di pari passo con la crescita delle operazioni speculative nei principali mercati internazionali.
  • Non parliamo d’invasione
    Il 75% di coloro che nell’Africa Sub-Sahariana hanno deciso di migrare sono rimasti all’interno del continente. Secondo i rilevamenti sulle migrazioni delle Nazioni Unite, nel 2017, il continente africano ha ospitato 24,7 milioni di migranti. Sempre stando alla stessa fonte, nel 2015 la maggior parte dei migranti nati in Africa che vivevano al di fuori del continente risiedevano in Europa (9 milioni), in Asia (4 milioni) e in Nord America (2 milioni). In termini di numero di immigrati, il Sudafrica è il paese di destinazione più significativo in Africa, con circa 3,1 milioni di migranti internazionali che risiedono nel paese (circa il 6% della sua popolazione totale). Solo una parte dei migranti africani si allontana di molto dal proprio paese d’origine.


La sfida è culturale
Lungi da ogni retorica, la sfida, prima ancora che essere sociale, politica ed economica. Culturale perché bisogna far girare i neuroni della testa e del cuore. Ecco che allora, riflettendo su quanto sta avvenendo sul palcoscenico della Storia contemporanea, è sempre più evidente che il denaro è diventato il generatore simbolico di tutti i valori. Alla prova dei fatti  è l’unico valore che conta. Questo ha fatto sì che oggi la gente sia convinta che occorra puntare unicamente su ciò che è utile. Stiamo dando ragione ad Hegel secondo cui le persone sono coloro che hanno il denaro, perché solo loro possono sottostare alle leggi. Gli altri sono individui. Se non hai denaro sei un fuorilegge. La Chiesa, per vocazione, non può accettare questa mercificazione dell’esistenza umana. Essa è chiamata ad essere “sale”, “lievito” promuovendo una rivoluzione culturale che riaffermi il primato sul mercato della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio, nel contesto della “Casa Comune” (Cfr. la titolazione e i contenuti generali dell’Enciclica Laudato Si’). In questo contesto le periferie, per papa Francesco, sono il locus per eccellenza della missione ed hanno una duplice valenza: geografica (dalle baraccopoli di Nairobi, alla miseria di Calcutta; dalle palafitte sui rifiuti degli slum di Bangkok alle township del Sudafrica; dalle favelas di Rio ai precari insediamenti umani ai margini delle megalopoli occidentali) ed esistenziale (ad esempio il tema del welfare, oggi misconosciuto ed ignorato un po’ a tutte le latitudini). Ecco che allora la presenza in periferia non può essere neutrale, ma dalla parte del poveri. Papa Francesco, durante la veglia di Pentecoste il 18 maggio del 2013,  disse: “La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale”. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è    abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada. E questa è la nostra povertà: la povertà della carne di Cristo”. L’amore cristiano, dunque, per Papa Bergoglio, non è un’idea astratta ma diventa concreta nel servizio ai poveri, che sono “la carne di Cristo”. Ciò che disturba i suoi detrattori è l’esaltazione della povertà come “porta del paradiso” e dei poveri come “protagonisti della missione”, in contrasto, secondo loro, con una sistematica denuncia della miseria come male estremo, da parte di Francesco.  L’indicazione bergogliana dei cosiddetti “rimedi” contro il sottosviluppo e ogni genere di ingiustizia viene interpretata dai tradizionalisti più reazionari come una riproposizione di vecchi schemi terzomondisti. Nelle argomentazioni dei fautori della Chiesa costantiniana è evidente l’incapacità, per non dire l’impossibilità, di coniugare le istanze dello spirito e della fede con i bisogni esistenziali di chi deve lottare per  vivere o addirittura sopravvivere. Invece, l’ “eco-teologia” dell’enciclica Laudato Si’, fondata sul valore impellente della salvaguardia della “Casa comune”, è l’espressione di una radicale svolta in favore della cristianità, per la causa del Regno. La povertà, allora, non è la “mistica della miseria”, sì quasi fosse una sorta d’archetipo della vita umana o rifiuto palese dello sviluppo, quanto piuttosto è denuncia del sopruso, rigetto delle angherie dei nababbi, quelle che precludono il progresso e dunque condivisione. Ma la povertà è soprattutto, come scelta di vita, l’impegno dichiarato a condividere con gli altri e dunque a non essere felici da soli.

Cosa fare?
Anzitutto è necessaria tanta, ma tanta informazione. Mai come oggi è necessario aiutare la nostra gente a comprendere cosa sta avvenendo nei cinque continenti, andando al di là dei luoghi comuni. Il contenuto semantico di “in – formare” significa letteralmente “dare forma”, “plasmare, modellare secondo una determinata forma”. Da rilevare che il prefisso “in” ha un’accezione accrescitiva anziché negativa (come ad esempio nel caso di “in – formale” o “in – forme”). Viene allora spontaneo chiedersi in che senso l’informazione possa dare forma alla realtà internazionale, unitamente alla vita delle Chiese. La risposta è che informando si dà ordine alle notizie, sia nel senso stretto di eliminazione del disordine, sia in quello più ampio di ricerca della verità e riduzione della complessità determinata da un alto indice di notizie, attraverso un sano discernimento sulle fonti. Pur vivendo immersi in una cultura globalizzata, paradossalmente, sappiamo poco o niente di quello che succede nel mondo. Purtroppo, la mercificazione a cui è sottoposto l’intero comparto massmediale, il clientelismo imposto da alcuni potentati del sistema informativo, nonché l’emissione affannosa di notizie resa necessaria dalle regole della comunicazione in tempo reale, rappresentano un forte limite nel raccontare i fatti e gli accadimenti su scala planetaria, in particolare quelli che si verificano nelle tante periferie. Emblematici sono i casi della guerra in atto nella Repubblica Centrafricana o della feroce tirannia che da anni, ormai, insanguina l’Eritrea, per non parlare della crisi somala. Fenomeni, questi, che generano l’esodo di milioni di persone, ma quasi mai raccontati dalla grande stampa. Col risultato che quando si verificano gli sbarchi di profughi sulle coste del Bel Paese ci si sofferma solo sulla cronaca immediata senza spiegare le vere ragioni della mobilità umana. Tutti, oggi, abbiamo bisogno di soddisfare la necessità istintiva di scoprire qualcosa che sia più aderente alla nostra quotidianità di cittadini del mondo, qualcosa di realisticamente vero: il “villaggio globale” che è molto più grande dello Stivale o della stessa Europa.

All’informazione deve poi essere associata una conoscenza della Dottrina Sociale della Chiesa che purtroppo, almeno in Italia, non è ancora entrata a pieno titolo nella formazione degli operatori pastorali. Tre le questioni centrali su cui si fonda il dettato magisteriale: la solidarietà, la sussidiarietà e la comprensione della Res publica. Quest’ultima rappresenta il terreno sul quale misurarci. Il Bene comune, in fondo, è la Terra Promessa. Esso rappresenta ciò che è condiviso e giova all’intera collettività. In sostanza è il campo sul quale sul quale si praticano la solidarietà e la sussidiarietà. Esso, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti, ma costituisce un punto di vista diverso e più alto, in cui si va oltre il gioco delle parti e si punta sulla realizzazione di quel tutto che è la realizzazione integrale, della persona umana, per quanto essa dipende dalla collettività. La posta in gioco è alta perché certi pregiudizi nei confronti dell’alterità sono il frutto di una  diffusa ed endemica “crassa ignorantia” da parte di molti fedeli rispetto a quelli che sono i dettami del Vangelo e in particolare della dottrina sociale di cui sopra. Sono vuoti da riempire invocando il dono della conversione. Vittorio Bachelet, vittima delle spietate Brigate Rosse, diceva: “Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento di amore”. Anni fa, quando molti dei nostri missionari denunciavano i meccanismi di sfruttamento della globalizzazione selvaggia nelle periferie del mondo, erano spesso tacciati di terzomondismo populista. Ora però che la crisi è diventata planetaria e che le masse sono impoverite anche in alcuni Paesi della vecchia Europa, abbiamo, per così dire, sotto gli occhi l’insostenibilità politica e sociale di un modello di sviluppo che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Forse è bene rammentare che negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, sembrava quasi fosse peccaminoso criticare un sistema che aveva generato in Occidente, dal punto di vista materiale, una condizione di benessere, espandendo la fascia del cosiddetto ceto medio. Eppure, allora, anche in Italia, vi erano voci fuori dal coro che avevano il coraggio di stigmatizzare l’inganno. “Spinti dal nostro feticismo produttivo – scriveva in quegli anni un coraggioso teologo, il compianto padre Ernesto Balducci – noi stiamo avanzando in regioni spaventose, quelle del benessere vuoto di ogni valore”. Ecco che allora, oggi, proprio facendo tesoro dell’esperienza traumatica dei poveri, nei bassifondi della Storia, siamo chiamati, come credenti, con urgenza e temerarietà ad opporci al pensiero debole imposto dal materialismo pratico,  definendo, con ingegno e fantasia, una cultura rispettosa della dignità della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. “La cultura della competizione […] è condannata non solo dalla coscienza – ammoniva padre Ernesto – ma dall’istinto di sopravvivenza. I valori alternativi sono, non dico possibili, ma necessari”. Del resto, perché la Storia, col suo carico di contraddizioni, riesca ad essere maestra di vita, pur passando nei resoconti della memoria in mani sempre diverse quante sono le generazioni, dovrebbe essere oggetto di un sano discernimento. Essa, infatti, continua ad essere la permanente narrazione di modelli di civilizzazione che, in fondo, hanno sempre generato una palese esclusione. Perché forse quella dei deboli e reietti d’ogni tempo è la storiaccia dei vinti, incapace d’includere nei suoi capitoli tutti i protagonisti del copione. Sì, quasi vi fosse un disfacimento per cui la periferia, ciò che è distante dal palazzo, non contasse per edificare i posteri nella perpetua memoria delle loro gesta negate. “Quando ci siamo svegliati – scrisse provocatoriamente don Lorenzo Milani – i poveri erano già partiti senza di noi!”.  È drammaticamente vero, non solo in riferimento al passato, ma anche al presente che c’appartiene. Ma queste anime dimenticate che hanno accettato l’esodo dell’emarginazione nello spazio e nel tempo, non  solo costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale,  ma ci interpellano. D’altronde, il messaggio evangelico non legittima la rassegnazione. Pertanto, dobbiamo avere l’ardire di rimboccarci le maniche con umiltà, senza rimpiangere le cipolle d’Egitto come gli ebrei quando erano nel deserto. La  tentazione, a questo punto,  potrebbe essere la delega, secondo la logica dello scaricabarili. Che vi siano, cioè, ardimentosi missionari o volontari che dir  si voglia, prodighi di benevolenze,  pronti a  rincorrerli sui sentieri di un’esistenza algida e vischiosa, fatta di paludi dove è  facile affondare. Sì, quasi la salvezza delle anime fosse solo e unicamente affare loro. Papa Francesco, però, dall’alto del suo illuminato pensiero ci ammonisce, sapendo che, in fondo, un nuovo mondo è possibile con l’impegno di tutti. Perché tutti siamo missionari.

La terza  priorità deve essere quella della cooperazione, cioè dello scambio. E qui, il ragionamento ci deve portare ad andare al di là dell’accoglienza emergenziale. Si tratta, piuttosto di definire una serie di strategie che possano, per così dire, affermare la circolarità dello scambio, non solo materiale, ma anche spirituale. Qui si tratta di capire che la missione non consiste soltanto nel dare, ma anche nel ricevere. Essere cattolici, infatti, significa essere aperti per vocazione all’universalità. Ad esempio, come leggiamo nell’esortazione apostolica Pastores Dabo Vobis in riferimento al ministero presbiterale: “L’appartenenza e la dedicazione alla Chiesa particolare non rinchiudono in essa l’attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare sia del ministero sacerdotale. Il Concilio scrive al riguardo: “Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, fino agli ultimi confini della terra, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli”. (32). Naturalmente, lo stesso discorso è estendibile ai laici che devono capire comprendere, col cuore con la mente, che nella fede siamo cittadini del mondo. Qui serve, creatività e immaginazione, investendo risorse umane, ad esempio nell’advocacy (sostenendo in tutti gli ambienti la globalizzazione dei diritti), nell’educazione alla mondialità, all’interculturalità, alla definizione di scambi che non necessariamente devono avere una matrice mercantile.

Per concludere
Può essere utile un accenno fugace al pensiero “Ubuntu”. Si tratta di un concetto filosofico della tradizione bantu, dalla forte valenza sociale, presente, ad esempio, nelle lingue dei popoli Zulu e Xhosa. Se provassimo a tradurlo in Italiano, potremmo dire: “io sono perché tu sei”, “una persona diventa umana attraverso altre persone”, “una persona è una persona a causa di altre persone”. Ecco perché da quelle parti si dice: “Umuntu, nigumuntu, nagamuntu”, che, nella ligua Zulu, significa: “una persona è una persona a causa di altri”, affermando così la centralità della relazione umana dal punto di vista ontologico. Ma non v’è dubbio che chi è riuscito, forse meglio di altri, a spiegare il reale significato di questo concetto ancestrale, è stato l’ex presidente sudafricano e Nobel per la Pace, Nelson Mandela. “Una persona che viaggia attraverso il nostro Paese e si ferma in un villaggio – ha commentato – non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?”. Ma per comprendere ancora meglio quanto sia forte questa dimensione relazionale all’interno di queste culture di ceppo “bantu”, è illuminante un aneddoto raccontato di un antropologo che ha svolto un’intensa ricerca su questo tema in Sudafrica. Un giorno, egli decise di mettere un cesto pieno di frutta vicino a un albero, dicendo poi a un gruppo di ragazzi che chi tra loro fosse arrivato prima avrebbe vinto tutti i frutti. Quando diede il segnale, tutti i bambini si presero per mano e corsero insieme, poi si misero in cerchio per godere comunitariamente il premio promesso. Successivamente, lo studioso chiese il motivo per cui avevano evitato la competizione, e tutti risposero insieme: “Ubuntu!”. Una saggezza ancestrale che tutto comprende, dalla forte valenza evangelica e a cui il mondo globalizzato, quello degli affari e dello spread, dovrebbe guardare maggiormente con rispetto.