Liberi dalla paura

Liberi dalla paura

“Vogliamo lanciare all’Italia un messaggio di fiducia e di futuro”, afferma don Gianni De Robertis, direttore della Fondazione Migrantes, che dice pubblicamente grazie alle famiglie e alle associazioni impegnate nell'accoglienza.

Quando si contrappongono ‘i nostri e i loro’, si usano espressioni come ‘a casa nostra’, queste non hanno nulla di cristiano. Lo afferma don Gianni De Robertis, direttore della Fondazione Migrantes, sottolineando che le comunità cristiane non devono adeguarsi allo stile del disprezzo e del rifiuto, ma essere luoghi dove è possibile incontrarsi come fratelli.

Dal 15 al 17 febbraio si terrà a Sacrofano il Meeting delle realtà di accoglienza sul tema “Liberi dalla paura”. Di cosa si tratta?
Abbiamo invitato al Meeting, che è organizzato insieme da  Fondazione Migrantes, Caritas Italiana e Centro Astalli, tutte quelle persone che, come ha ricordato recentemente il Santo Padre ricevendo il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ‘nella fedeltà alle proprie tradizioni, mantiene vivo quello spirito di fraterna solidarietà che l’ha lungamente contraddistinta’. Si tratta di famiglie, parrocchie, singoli che, in modi diversi, hanno scelto di ospitare o di incontrare i migranti presenti sui nostri territori. Sono realtà ecclesiali e non, rappresentative di tutta Italia. Se qualcuno volesse avere maggiori informazioni o desiderasse partecipare, può contattare i numeri 06.66177210 o 06.6617901.

Quale è il messaggio che si vuole lanciare attraverso questo appuntamento?
Ci è sembrato doveroso, innanzitutto, dire un ‘grazie’ a queste persone ed incoraggiarle, in un momento  in cui non solo gli stranieri presenti ma anche tutti quelli che fanno solidarietà  il più delle volte non si trovano davanti all’approvazione e alla gratitudine, ma piuttosto all’ostilità e a volte all’insulto.
Mi ha colpito il racconto di una famiglia di Corato, in Puglia, che di fronte alla chiusura di due CAS e al fatto che gli ospiti sono finiti per strada, ha deciso di accogliere un ragazzo nigeriano che aveva stretto amicizia con il loro figlio e che ha il sogno di diventare  pastore anglicano. Ma nel paese questo gesto è stato giudicato male da molti. Noi invece vogliamo dire grazie e incoraggiare. E poi  lanciare all’Italia un messaggio di fiducia e di futuro: decidere di incontrare lo straniero, ospitarlo, non è l’esperienza tragica e pericolosa che spesso viene dipinta, ma nella stragrande maggioranza dei casi si rivela arricchente per tutti.

Nella prefazione a “Luci sulle Strade della Speranza”, una raccolta degli insegnamenti del papa su migranti, rifugiati e tratta, Bergoglio ricorda che Gesù è stato un profugo e che le migrazioni, un fenomeno che ha sempre caratterizzato la storia dell’umanità, sono un fattore di arricchimento. In che modo le comunità cristiane possono reagire al diffondersi di atteggiamenti di chiusura, razzismo e indifferenza?
Come cristiani non possiamo non sentirci particolarmente coinvolti da quanto sta accadendo. Sappiamo che anche la Sacra Famiglia ha vissuto gli stessi drammi che oggi vivono tante famiglie di profughi. Gesù è stato pellegrino per le vie della Palestina, i primi cristiani dicevano di sé di essere ‘paroikoi’, cioè stranieri e pellegrini. Quando si contrappongono ‘i nostri e i loro’, si usano espressioni come ‘a casa nostra’, queste non hanno nulla di cristiano. Nella Bibbia, la Terra è di Dio  e noi tutti siamo ospiti e pellegrini verso la patria. Le migrazioni sono una realtà legata da sempre all’uomo e alla storia della salvezza. Ciò che è doloroso oggi è il fatto che molte persone non scelgono di partire, ma sono costrette a farlo a causa della miseria, delle guerre e della persecuzione. Bisogna riaffermare, come sempre ripete il Magistero, anzitutto il diritto di ciascuno a restare nella propria terra e poi anche certamente il diritto ad emigrare, a scegliere dove costruire la propria vita.  Le comunità cristiane non devono adeguarsi allo stile del disprezzo e del rifiuto, ma essere luoghi di incontro, dove è possibile cioè incontrarsi come fratelli.

Le notizie degli ultimi naufragi e delle nuovi morti nel Mediterraneo hanno rinfocolato il dibattito politico, creando fronti contrapposti nell’opinione pubblica. Eppure anche il card. Bassetti, presidente della Cei, qualche giorno fa aveva sottolineato che “sui poveri non ci è dato di dividerci, né di agire per approssimazione”….
Come comunità cristiana siamo chiamarti a tenere unito il Paese, non a dividere  ma a ricucire, a rammendare il tessuto sociale. Siamo tutti d’accordo nel dire di voler combattere i trafficanti e che nessuno dovrebbe arrivare in Europa affrontando viaggi disumani, subendo torture e violenze. Per questo occorrerebbe che l’Unione Europea e le Nazioni Unite affrontassero questa realtà drammatica, come in verità si è iniziato a fare con il ‘Global Compact’, a Marrakesh, a cui però il l’Italia con gli Stati Uniti e i Paesi del Gruppo di Visegrad non è stato presente.

L’8 febbraio si celebra la Giornata Mondiale di preghiera contro la tratta di esseri umani. Alcuni schieramenti politici sostengono che scoraggiare le partenze sia un deterrente per i trafficanti. Ma è davvero così?
Non si possono combattere  i trafficanti sulla pelle della povera gente, non si fermano le migrazioni forzate chiudendo i porti, ma andando ad incidere sulle cause. Aiutandoli a casa loro, ma nei fatti e non con le parole.