Spezzare le catene della schiavitù

Spezzare le catene della schiavitù

“Chi è il mio prossimo?”. La riflessione di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e presidente di “Slaves no more”.

Di suor Eugenia Bonetti

 “Un dottore della legge, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?” Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto” (Lc 10, 29-37).

Alla domanda del dottore della legge Gesù non dà una risposta teologica ed esauriente, offre bensì una parabola complessa, ma altrettanto chiara e sfidante, che capovolge elementi culturali, eliminando pregiudizi, condannando atteggiamenti e stimolando interventi. L’unica attenzione e preoccupazione per Gesù risiede in ogni persona, in qualsiasi situazione si trovi, perché la “persona” è il prossimo da amare e da soccorrere nel bisogno. Oggi questa parabola, insieme alla risposta che Gesù da’ a chi gli chiede: “Chi è il mio prossimo?” possono essere ancora attuali?
Nell’udienza generale in Piazza San Pietro del 27 aprile 2016, Papa Francesco presentando la Parabola del buon Samaritano in connessione con l’Anno Santo della Misericordia così si esprimeva: “La compassione è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi come il samaritano ha avuto compassione del malcapitato, mentre il dottore della legge ed il levita vedono ma passano oltre perché i loro cuori rimangono chiusi e freddi”.
Se si volesse attualizzare la parabola, oggi, nel nostro contesto, Gesù potrebbe rispondere così a chi gli pone questa domanda: “Una giovane donna si mise in viaggio dalla Nigeria verso l’Italia sperando in un futuro migliore per se e per la sua famiglia assai numerosa. Ad attenderla c’era l’estenuante viaggio nel deserto del Sahara, la sosta forzata in Libia, la traversata del Mediterraneo su imbarcazioni fatiscenti e strabordanti. Ella conobbe i trafficanti che la ingannarono, violentarono e derubarono della sua identità, dignità, legalità e libertà, lasciandola mezza morta”.
Analizzando personaggi, atteggiamenti ed interventi troviamo una chiara analogia tra ciò che Gesù proponeva ai suoi interlocutori con la parabola del buon Samaritano e ciò che avviene, oggi, in un nuovo contesto, sulle nostre coste nonché sulle strade delle nostre città e paesi. Cambiano i volti, i nomi, le circostanze, ma la realtà di violenza sulla persona debole e indifesa non cambia.
Purtroppo negli ultimi cinque anni gli sbarchi sulle nostre coste, particolarmente di giovani donne africane, specie nigeriane, è aumentato a dismisura, con una punta di 15.600 nigeriane tra il 2016 – 2017. La nuova tipologia di persone che sbarcano in Italia si può così riassumere: donne in maggioranza minorenni, analfabete e incinte. Ma che cosa si nasconde dietro questo traffico di giovani africane/nigeriane? Il primo punto risiede nell’incessante domanda di giovani vendute ed acquistate a fini sessuali. Cosa possibile viste la grande povertà materiale dell’Africa, la mancanza di educazione e di opportunità di lavoro. Purtroppo nel terzo millennio in una società dove si parla tanto di progresso, di tecnologia, di investimenti, di educazione, di benessere, dobbiamo costatare, con vergogna, che esiste ancora una terribile disuguaglianza tra uomo e donna, tra paesi ricchi e paesi poveri.
Nel 2018, purtroppo, ci troviamo a parlare ancora di schiavitù, abolita da oltre due secoli sia in Europa che in America, abbondantemente popolata da schiavi provenienti dal Continente Africano. Che cosa è cambiato da allora? La storia, che dovrebbe essere maestra di vita, sembra averci insegnato ben poco se oggi parliamo ancora della tratta di esseri umani, le cui vittime sono milioni di donne e minori. La tratta di esseri umani è una delle attività illegali più lucrative al mondo: rende diversi miliardi di dollari l’anno ed è il terzo “business” più redditizio, dopo il traffico di armi e di droga.
Purtroppo in Italia la maggior parte di queste donne, ridotte in schiavitù per essere usate e comprate da milioni di clienti Italiani – 90% battezzati -, provengono da paesi precedentemente evangelizzati dai missionari, che con queste popolazioni hanno condiviso fatiche e sofferenze per comunicare la fede cristiana.
Simbolo di ogni schiavitù è e rimane sempre la catena: strumento che toglie alla persona libertà di azione per sottometterla al volere di un’altra. E come la catena è formata da molti anelli, così la catena di queste nuove schiave del ventunesimo secolo ha degli anelli che hanno dei nomi e sono quelli delle vittime e della loro povertà, degli sfruttatori con i loro ingenti guadagni, dei clienti con le loro frustrazioni, della società con la sua opulenza e carenza di valori, dei governi con i loro sistemi di corruzione e di connivenze, della Chiesa e di ogni cristiano, noi compresi, con il silenzio e l’indifferenza. Più volte Papa Francesco ha parlato della globalizzazione dell’indifferenza.
Ma nella catena delle nuove schiave del terzo millennio il consumatore/cliente è certamente uno degli anelli più saldi, perché è proprio lui che sostiene ed alimenta l’industria del sesso. Se ci sono tante “prostitute” sulle nostre strade, costrette a vendere il proprio corpo, è perché vi è una grande richiesta. E la donna povera, indifesa, senza documenti e senza patria è diventata la risposta a questa domanda.
Dall’inizio del grande giubileo dell’Anno Santo del 2000 le religiose, insieme alle Caritas e ad altre organizzazioni umanitarie, hanno offerto un grande contributo nella lotta contro la tratta di persone, particolarmente accogliendo e recuperando le giovani vittime di tratta che fuggivano da trafficanti e consumatori, ridando loro la speranza di un futuro migliore. Da allora sono state accolte nelle nostre strutture e aiutate oltre 6.000 vittime, provenienti da vari Paesi e accompagnate nella ricostruzione delle loro vite spezzate.
Molte di queste giovani sono state anche aiutate a rientrare nei loro paesi grazie alla collaborazione tra le religiose di diverse congregazioni sia Italiane che Nigeriane. Nel 2007 è stata inaugurata a Benin City una bellissima casa di accoglienza per donne che ritornavano in patria, sia volontariamente oppure perché prive di documenti e, quindi, espulse dall’Italia. La casa finanziata dalla CEI è stata donata alla conferenza delle religiose della Nigeria.
La fantasia della carità non ha limiti quando si vede il prossimo in necessità e si cercano soluzioni adeguate. Infatti dal 2003 un gruppo di religiose diverse nazionalità e congregazioni visitano settimanalmente il CIE di Ponte Galeria per incontrare donne di tutte le nazionalità costrette a stare nella struttura perché prive di documenti. Le religiose offrirono una presenza fraterna con un sostegno psicologico e religioso specie in vista di una loro espulsione. In questo luogo di grande sofferenza si sperimenta in modo concreto ciò che vuol dire essere Samaritani oggi curando le ferite causate dallo sfruttamento e dall’espulsione.
Nel 2013 abbiamo iniziato un nuovo progetto per rimpatri volontari assistiti e finanziati per giovani Nigeriane che desiderano ritornare a casa in modo dignitoso e con un progetto personalizzato. Questo è stato possibile grazie alla collaborazione della rete delle religiose in Nigeria, all’aiuto della Caritas Italiana attraverso i fondi della CEI e alla collaborazione con l’associazione: “Slaves no more”. Dall’inizio del progetto sono state aiutate e rimpatriate 30 donne con 8 bambini, mentre altre sono in attesa di poter partire e ritornare a casa nelle prossime settimane. Questi sono gesti concreti che offrono la possibilità di rompere gli anelli della catena e offrire la possibilità per queste giovani vittime di ritornare ad essere persona e non merce.
Chi non ricorda la storia della piccola Favour di 9 mesi che, partita dalla Nigeria insieme ai suoi giovani genitori in cerca di un futuro migliore in Europa, questi hanno trovato la morte insieme ad altre centinaia di persone che si erano affidate a trafficanti senza scrupoli per poter giungere nella terra promessa? La piccola Favour è sopravvissuta, anche lei come Mosè salvata dalle acque. E chi non ricorda la terribile scena delle 26 bare allineate in Sicilia dopo il terribile naufragio in cui hanno perso la vita tante giovani piene di speranza, uccise anche dalla nostra indifferenza ancora prima delle onde del mare.
Dovremmo sentirci tutti responsabili di questo grosso disagio sociale che sta distruggendo la vita di tante giovani indifese e vulnerabili, ma che distrugge contemporaneamente tante famiglie e mette in discussione le nostre stesse comunità cristiane e civili. Ciascuno di noi ha un ruolo da svolgere con responsabilità, a seconda delle proprie competenze: autorità sociali e religiose, funzionari dell’ordine pubblico e operatori del settore privato, insegnanti e genitori, Parrocchie e Congregazioni religiose, uomini e donne che mirano al bene comune basato sul valore e rispetto di ogni persona. Attraverso le nostre risposte alle sfide moderne e alle nuove povertà, che rendono visibile e credibile la nostra missione di una Chiesa viva, misericordiosa e attenta ai più deboli e alla formazione di generazioni future, potremo diventare i nuovi Samaritani del terzo millennio che ancora oggi si interrogano: “Chi è il mio prossimo?” E la risposta non può essere che la stessa: “Va, e anche tu fa lo stesso”. Va e cerca di guarire le profonde ferite di questa nostra umanità malata e bisognosa di misericordia, di giustizia e solidarietà.